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Che cosa vi è di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci invita? Ecco, il Signore, nella sua bontà, ci mostra il cammino della vita. RB, Prol 19-20

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Lettera di S.Paolo ai Filippesi XXIII

Omelie al Capitolo della comunità per la Quaresima - 27/04/2009

filippesi 2, 8-9

"umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome;"

L'inno raggiunge il colmo della sua drammaticità in questa luce d'umiltà e obbedienza del Verbo eterno e glorioso, con la precisazione che la morte non è stata una morte naturale, come qualsiasi morte, ma una morte in croce: obbediente fino alla morte, rimasto fedele alla natura umana che ha preso per amore e per salvare gli uomini, ma Paolo aggiunge: “e una morte in croce”, e con questo vuole sottolineare l'umiltà e l'umiliazione accettate liberamente dal Verbo eterno.
La morte dell'ultimo, del disprezzato, dello schiavo, del delinquente, del rivoltoso.
Dietro a questa sottolineatura di Paolo c'è tutta la sua teologia della croce, che caratterizza il cristiano: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1 Co 1, 23). Il linguaggio cristiano è infatti il linguaggio della croce: potenza di Dio e sapienza di Dio che confonde la potenza e la sapienza degli uomini.
Per Paolo la croce è ciò che mette al suo giusto posto l'atto di fede: se cercassimo di giudicare il Vangelo con un metro umano e con delle garanzie che soddisfacessero la nostra ragione o la nostra politica, renderemmo vano il Vangelo e non capiremmo il messaggio, la buona novella. La croce ci sfida e ci impone un atto di fede che ci farà capire la bellezza e la bontà del Vangelo e quindi di tutto ciò che Dio fa per noi e ci dà.
La morte in croce di Gesù Cristo quindi, da suprema umiliazione del Verbo diventato uomo, diventa l'ago della bilancia della nostra fede e della nostra salvezza, perché se non crediamo saremo condannati come diceva il vangelo di san Marco l'altro ieri. Ora, non fermiamoci al mistero della fede o della non fede, perché qualcuno crede e altri no e cosa ne sarà di chi non riesce a credere, guardiamo invece il mistero della croce che ci spinge oltre le nostre logiche e le nostre sicurezze per seguire il Signore che ci chiede d'entrare nella follia della croce. Non nell'originalità di chi fa ciò che vuole e difende la propria libertà e le proprie voglie, perché in ogni caso la croce è messa nella luce dell'obbedienza e dell'umiltà e in quella ancora più originaria dell'amore che dà tutto se stesso.
Per questo Dio l'ha esaltato: non certo dandogli la gloria divina che non ha perduto, ma glorificando quell'umanità che ha saputo, attraverso l'umiltà e l'obbedienza, incarnare pienamente l'amore eterno, che è Dio. Il brusco passaggio della parola croce a quello di “esaltato” che in greco ha il prefisso iper: “l'ha super esaltato”, mostra quell'unità paradossale e cristiana tra il colmo dell'umiliazione e quello della gloria suprema, unità che è sorgente in Maria del canto del Magnificat. “Con la sua morte ha sconfitto la morte”, cantiamo in questo tempo: la suprema vittoria, sull'ultimo nemico, è avvenuta grazie alla suprema umiliazione: la morte stessa nella sua forma più abietta e degradante.
Questa è la luce di tutta la vita cristiana. Pasqua diventa la grande festa non solo perché è la festa della vita, ma perché impone al credente una visione totalmente nuova e “scandalosa, assurda” dell'esistenza.