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A Dio, non a sé, attribuire il bene di cui ci si riconosce capaci. RB 4,42

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Dominus Tecum

Lettera di S.Paolo ai Filippesi XLV

Omelie al Capitolo della comunità per la Quaresima - 18/07/2009

Filippesi 3,20-21

La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.

I versetti che seguono e che concludono il capitolo 3 sono quasi una finale a suon di tromba.
Il capitolo 4 sarà piuttosto un capitolo di saluti e di ricordi, meno teologico.
Dopo aver invitato ad imitare Cristo e a seguirlo, Paolo parla della morte, che è una realtà già presente nella situazione attuale del cristiano.
I nemici della Croce hanno come dio il ventre e come gloria il disonore: Paolo lo dice con lacrime, ma la sua attenzione si rivolge subito a coloro che sono i veri amici di Cristo e dice “Noi siamo cittadini del cielo”. Anche nella lettera agli Ebrei si parla di assemblea dei santi e degli angeli.
La nostra città è già la città di Dio e tutta le nostra vita si svolge in un mondo nuovo.
Non che tutto sia già realizzato, anzi. Altrove Paolo dice che “qui non abbiamo una dimora stabile”, siamo pellegrini verso la piena realizzazione della nostra vera cittadinanza, ma come dice S. Cesario, la frequentazione della Parola di Dio ci mette in contatto con la nostra vera casa, la nostra Patria, i nostri concittadini, l’assemblea degli angeli e dei santi.
Sappiamo che la condizione del cristiano è essere pienamente legato, unito dalla carità e dalla solidarietà umana con i suoi contemporanei, ma nello stesso tempo straniero di passaggio, col desiderio di raggiungere la Patria, con una lingua, una mentalità, un modo di vivere particolare che con fatica si adatta, senza volersi compromettere, con la vita dei suoi contemporanei.
Essere cittadini del cielo non è ancora la pienezza, perché attendiamo il nostro Salvatore Gesù Cristo.
Il nostro cuore non è appagato neanche da una buona vita cristiana, dalle virtù, dalla Parola, dalla liturgia, dalla comunità fraterna.
La salvezza non è ancora questo e il nostro desiderio, mosso dallo Spirito che è in noi, è quello di una trasfigurazione della nostra condizione mortale, del nostro corpo limitato e legato al peso della debolezza e del peccato, ad immagine del corpo glorioso, risorto del Cristo.
Qui sentiamo ancora l’inno, già meditato in precedenza, con lo “scambio” della “forma, o condizione”. Gesù che ha preso la nostra condizione mortale fino all’obbedienza della morte e che è stato glorificato, renderà ugualmente glorioso quel nostro essere “corpo di umiliazione”; simili a lui passeremo dal corpo di umiliazione al corpo di gloria, perché il corpo fisico, luogo della nostra vita, porta l’umiliazione della natura umana e riceverà la gloria della divinizzazione.
Se siamo chiamati ad imitare Cristo è per essere coinvolti con lui nel mistero di umiliazione nella morte e di risurrezione nel corpo glorioso.
Avendo ricevuto “il Nome che è al di sopra di ogni altro Nome” tutto gli è stato sottomesso.
E la vittoria di Cristo, non è vittoria che ci schiaccia sottomettendoci, ma che ci esalta unendoci a lui.