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Contemplare la Passione

P. Cesare Falletti O. Cist. - 17/01/2005

“C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante” (Qo. 3,2), un tempo per agire e uno per contemplare, possiamo aggiungere.
Siamo giunti alla fine del tempo della Quaresima: tempo “attivo” per cristiani in quanto è il tempo del cammino della conversione, il tempo dell'accelerazione, della corsa alla santità, il tempo del darsi da fare per cambiar vita, attraverso una gioiosa penitenza (come dice la nostra liturgia e in genere la tradizione monastica che parla di gioiosa tristezza, di lutto luminoso e di lacrime di luce). Tempo anche di una carità più solerte, più attenta, più generosa; tempo di preghiera più abbondante e insistente, di partecipazione ai sacramenti più intensa; tempo dunque d'attività cristiane per controbilanciare alla tiepidezza del tempo dell'anno in cui il fedele è tentato di distrazione, di fare le fusa davanti al caminetto della sua fede. Si mette tutto in opera per ridar vita, calore e colore alla propria vita cristiana.
Ora perciò siamo giunti, grazie alla serietà del nostro cammino Quaresimale, alla Passione del Signore: la vera penitenza conduce alla coscienza che non possiamo salvarci da soli e l'ascolto della Parola, che ci salva, a fermarci davanti alla grandezza, la profondità, l'altezza, la larghezza del mistero che celebriamo.
Entrando nella settimana della Passione vediamo Gesù partire da solo verso la Croce, verso l'epifania dell'amore divino per l'uomo, verso la trasfigurazione, attraverso il volto sfigurato di Dio, dell'uomo glorificato.
Al termine del nostro sforzo, contempliamo la gratuità della salvezza!
La penitenza ci prepara a conoscere il nostro peccato e la nostra debolezza, ci apre al riconoscimento della nostra povertà: solo quando siamo deboli incontriamo il Dio che si fa debole per incontrarci. Due potenze non possono scontrarsi, due debolezze che incontrarsi. Incontrando il Dio che si fa debole, inerme, innocente (che non nuoce), indifeso, che si consegna nelle mani degli uomini, vediamo che ormai agisce da solo.
Alla pesca miracolosa aveva chiesto l'aiuto di Pietro e dei suoi compagni, per la moltiplicazione dei pani ha mandato gli apostoli, per l'entrata in Gerusalemme ha fatto preparare tutto dai discepoli, ora invece avanza verso la croce da solo.
Dopo la cena con i discepoli, l’ora di Gesù giunge e nell'orto degli Ulivi, Gesù si dà al Padre per tutti gli uomini: "...sedetevi qui mentre io prego... ...Restate qui e vegliate. Poi andato un po' innanzi si gettò a terra a pregare..." (Mc. 14,32-35) e Luca precisa che “si allontanò da loro quasi un tiro di sasso” (Lc. 22,41).
Il tiro di sasso è insieme vicino e lontano; si può vedere, ma non toccare. La lapidazione infatti, si usava per non toccare, non contaminarsi con l'impurità dell'adultera o del bestemmiatore.
Dopo averlo toccato per guarire ed essere stati toccati da Lui, aver camminato di fianco a Lui, dopo avere preparato la Sala della Cena con Lui, i discepoli vedono Gesù diventare inafferrabile, si allontana senza abbandonarli, per vivere da solo l'essenziale della sua missione. Ad essa li assocerà più tardi: “partì da solo”; nel loro vegliare con Lui potevano solo guardarlo, non aiutarlo, servirlo, salvarlo. Nella Passione lo si può contemplare.
Non è più l'ora di lavorare su noi stessi, di affaccendarci a servirlo nel prossimo, non è più l'ora di piangere i nostri peccati e di lavare i suoi piedi con le nostre lacrime, e le sue membra, che sono i poveri, con la nostra carità. Tutto sembra fermarsi per lasciare Gesù partire da solo. È l'ora di accettare la nostra inutilità e di contemplarlo agire per noi, di essere bambini, impotenti che vedono la mamma o il babbo trafficare per loro.
Siamo salvati gratuitamente da Gesù solo. Dio è il nostro Salvatore, non ce né un altro, neanche noi stessi.
Noi siamo morti a causa del nostro peccato, immobili; solo Lui può avanzare e scendere nei nostri inferi per strapparci dalle tenebre e dall'ombra della morte (Lc. 1,79). La sua passione, nella carne umana che ha preso dalla Vergine Maria, è sotto lo sguardo del Padre che gli manda il Consolatore; al Battesimo, alla Trasfigurazione, nei miracoli la voce del Padre era con Lui e glorificava il Suo Nome. Ora non si manifesta più la Gloria, ma la debolezza.
L'uomo incontra Dio nella debolezza, nell'impotenza, nell'abbandono e la debolezza di Dio e dell'uomo si incontrano nella consolazione. “È quando sono debole che sono forte, perché nella debolezza si manifesta la potenza di Dio” (2 Cor 12,10), ma la potenza di Dio si manifesta crocifissa e salva, e risorgendo dal sepolcro con tutti coloro che sono stati vinti dalla forza della morte. Unito a tutti noi Gesù scende nell'estrema debolezza; nessuno può seguirlo, perché è da solo. Nella debolezza sferra l'ultimo attacco al Principe, al satana, al tentatore, all'accusatore e lo vince in un atto di totale abbandono, di completa obbedienza. “…Non come voglio io, ma come vuoi Tu!.” (Mt. 26,39), “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito.” (Lc. 23,46). Nella sua debolezza Gesù salva l'uomo, ma nella sua potenza si scontra con la morte; si lascia vincere ad essa per giungere all'estremo dell'amore, ma la distrugge per operare il bene di tutti gli uomini.
La Passione di Gesù non è soltanto il momento in cui noi dobbiamo fermarci per contemplarlo e ammirare la sua vittoria per noi, è anche il totale abbandono al Padre e il Padre gli dà lo Spirito che lo consola e lo risuscita, e risuscita anche noi. La potenza di Dio, la forza dello Spirito Santo, agisce innanzi tutto nella estrema debolezza del Dio Incarnato. Prima delle meraviglie della Pentecoste e ancor prima della gloriosa esultanza suscitata dal soffio nel Cenacolo la sera di Pasqua, lo Spirito che ha sempre condotto Gesù nella sua vita terrena, è presente nella debolezza della sua carne, per essere, dopo la Risurrezione, presente nella debolezza delle sue membra. Non solo nell'orto degli ulivi Gesù vive la sua missione da solo: è solo anche nell' “Ecce Homo” (Gv. 19,5). È l'uomo che da solo sta davanti a tutti gli uomini, lui da una parte, la moltitudine dall'altra. Il vero uomo è Lui, il Primogenito, colui che farà essere uomini tutti gli altri. Solo davanti agli uomini, ma anche solo davanti al Padre per dirgli: “Ecco l'uomo che hai perso nel Paradiso per un atto di disobbedienza, ora eccolo che torna a Te nella più perfetta obbedienza”. Primogenito, che si vedrà seguito dalla moltitudine dei fratelli, dei redenti. Alla fine dirà al Padre: “Eccoci io, e i figli che Dio mi ha dato” (Eb. 2,13). Nella Passione contempliamo il nostro ritorno al Padre, e contemplando Gesù-l'Uomo, vediamo che “la sua apparenza era sfigurata fino a non essere più d'uomo” (Is. 52,14): vediamo in esso ciascuno di noi, tutti noi, finalmente a viso scoperto davanti al Padre.
Adamo esce dal suo boschetto! Nudo e ferito. L'uomo acconsente a perdere la sua bellezza, per ricevere la bellezza di Dio. È il contrario del peccato originale.
Nel volto sfigurato in cui solo il Padre scorge lo splendore dell'uomo trasfigurato dall'amore per noi; solo, nella sua immensa sofferenza, non vuole solitudine da primo della classe, dell'unico, ma chiama alla comunione d'amore con la Trinità tutti gli uomini: “…Padre, perdona loro…” (Lc. 23,34), “…oggi sarai con me nel paradiso…” (Lc. 23,43).
La solitudine di Gesù, contemplata, porta alla comunione con Dio e quindi fra tutti gli uomini. Sua Madre stava presso la croce e accanto il discepolo: “…Ecco il tuo Figlio!... …Ecco la tua Madre!…” (Gv. 19,26-27). Maria, la credente, l'innocente, la silenziosa, vive anch'essa la solitudine del figlio. La Croce li unisce e dalla comunione fra i due “soli”, dal loro dolore e dal loro amore, tutta l'umanità è raccolta in una vasta Comunione. La Trinità si riflette nell'umanità e la porta del Paradiso si riapre.
Gesù, l'Uomo, può risorgere.