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A Dio, non a sé, attribuire il bene di cui ci si riconosce capaci. RB 4,42

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Dio ci ha amati per primo

P. Cesare Falletti O. Cist. - 17/01/2005

"In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati."
(1 Gv 4.10)

La manifestazione dell'amore non è un semplice fare, ma una rivelazione di Dio. Dio è Amore, Dio è Carità, Dio è Dono. Tutto ciò che è amore, carità e dono trova in Dio la sua sorgente.
Non siamo noi che spontaneamente, quasi per un bisogno naturale o per un eccesso della bontà della nostra natura, amiamo, ma è Dio che ama e ama per primo, accogliendoci nella sua dinamica dell'amare. Perciò nel "non siamo noi, ma è Dio" non c'è solamente un parallelismo, noi e Lui, ma un rapporto di origine, di causa. Il suo amore precede e suscita ogni altro amore.
La traduzione latina tradizionale (Vulgata), usata nella Chiesa occidentale per molti secoli, ha voluto giustamente, sottolineare questa anteriorità dell'amore di Dio, aggiungendo nel cuore del nostro versetto "per primo", che era implicito nel testo greco originale.
Cosa vuol dire "per primo"? Non è solo una questione cronologica: Dio è prima di noi, per cui ci ha amati prima, ma noi rispondendo col nostro amore rispondiamo adeguatamente a questo suo amore. Non è neppure unicamente sottolineata l'iniziativa divina, a cui corrisponderebbe l'adesione umana.
"Per primo" vuol dire "in un modo che è al di fuori, oltre, ogni altro modo di amare. Primo vuol dire un modo nuovo, un modo unico, così come il Primogenito è anche l'Unigenito, non solo uno dei suoi tanti figli, ma la sorgente del nostro essere tutti figli".
Nello stesso modo il suo "amare per primo" è sorgente di ogni altro amore, è un amore nuovo, unico che non può esistere all'infuori di Lui.
Giovanni l'aveva già detto nel versetto precedente: "in questo si è manifestato l'amore di Dio", nell'invio del suo unico Figlio. Ma questa missione del Figlio ci fa penetrare a fondo il mistero di Dio. Non noi, ma Lui ha amato in modo assolutamente nuovo, ineffabile, irripetibile.
Questo amore si è manifestato, è diventato atto concreto, perché l'amore "Agapè" vive manifestandosi, in una direzione concreta, in cui c'è un amante, un amato e un gesto d'amore.
Per questo il soggetto dell'amore non è l'amato, non è colui che risponde ma colui che ha l'iniziativa, il primo che manifesta in cosa consiste l'amore. E l'amore non è misurato dal bisogno dell'amato o da quanto egli sia capace di ricevere, ma dalla novità, che è gratuita, iniziativa, di chi ama per primo, che manifesta in cosa consiste l'amore, è che genera una risposta d'amore, o per lo meno lancia la sfida e attende che essa sia raccolta. Colui che ama, ama gratuitamente, ma amando e generando amore, attende una risposta che sia manifestazione che l'amore generato è vivo.
San Giovanni non tema di ripetersi continuando ad affermare con tono stupito, meravigliato, quasi esaltato, come con un inno di trionfo: "In questo l'amore si è manifestato", cioè è vero amore, perché Dio ha mandato il suo Figlio.
É un amore concreto, efficace, "Perché non avessimo la vita per lui" (1 Gv 4,9), ma nel ripetersi avanza con una spirale crescente: l'ha mandato "Come vittima di espiazione dei nostri peccati". Questo ci fa comprendere quanto è infinito l'amore di Dio.
Il peccato è un'offesa fatta a lui, un rifiuto del suo amore, della sua paternità, del suo voler essere "Il nostro Dio".
L'amore non pensa a se stesso e all'offesa ricevuta; è ferito dal male che fa a se stesso colui che lo rifiuta. Per questo amando Dio-amante si fa vittima del peccato della creatura amata per poterla guarire dal morbo segreto che la uccide.
La morte è privazione della vita e il peccato è separazione dall'unica sorgente della vita. Il Signore della vita vuole donarla; si avvicina all'uomo per toccarlo con il suo dito vivificante per renderlo davvero vivente.
Nel Deuteronomio Mosè dice al popolo: "Quale grande Nazione ha la Divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?"(4,7) e Legge, Profeti e Salmi continuamente ricordano che Dio ha scelto Giacobbe, il popolo di Israele, per renderlo il suo popolo, un popolo di viventi ed Egli stesso essere il suo Dio. Il peccato in questo contesto è soprattutto quello di andarsene a cercare un altro Dio ed ogni volta che mettiamo qualcosa davanti a Dio, che preferiamo a Lui noi stessi o un'altra creatura, cadiamo nel peccato generatore di morte.
Dio ha dunque manifestato il suo amore mandando il suo Figlio come vittima, non come giudice, dittatore che rimette le cose a posto, per l'espiazione del fatto che non l'abbiamo voluto come Dio
Questo è l'amore "Primo, unico, nuovo".
Il Padre ha dato colui che amava di più, il suo Figlio Unigenito, per amore della creatura che era diventata sua nemica. "Non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi" (Rm 8,22): ha dato il Giusto per gli ingiusti. Questa è la manifestazione dell'amore e non ve né di più grande.
Inoltre dicendo: "In questo sta l'amore", San Giovanni: non c'è né un altro. Non sono lunghi discorsi sull'amore, su cosa vuol dire amare, quando e quanto valga la pena di amare o a cosa serva, ma si afferma un fatto, un gesto, una carità concreta che manifesta l'amore più di tanti lunghi discorsi. "Ha dato", e fra le righe sembra di poter leggere: solo lui può amare così, solo lui che è l'amore.
Dio è uno e unico in tutto, soprattutto nell'amore e nell'amare. Tutta la teologia di Giovanni gira intorno a questa unicità dell'amore divino.
Dio ha dato e ha dato totalmente, senza mai riprendere. La sua fedeltà si manifesta nel non riprendersi il dono del suo figlio, nonostante tutte le reazioni possibili degli uomini.
"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito" (G.V. 3,16) e l'ha dato in modo definitivo, irrevocabile, un dono senza riserve e in maniera perfetta. "Gesù... dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine" (G.V. 13,1); questa parola porta in sé il significato di pienezza e di perfezione insuperabile.
Ma l'unicità di questo amore non significa monopolio. Se l'amore umano, anche il più alto e il più bello, rimane di natura differente dall'amore divino, Dio può comunicare all'uomo qualcosa del suo amore e del suo amare.
I cristiani sono chiamati dal vecchio Giovanni: gli amati. Non è solo, infatti, un modo epistolare di dire "Carissimi!" è una definizione del cristiano stesso a cui l'apostolo si rivolge: amati, non da me, ma da Dio. E se siete tanto amati, non potete far altro che amare, portati dallo stesso movimento che fa scendere l'Unigenito in mezzo agli uomini. Amandovi Dio vi comunica la sua capacità di amare, la natura del suo amore.
L'amore con cui il cristiano ama non è suo, ma egli si trova come trascinato dal tornado di amore da cui è amato.
Se contemplo l'amore divino sono trasportato quasi irresistibilmente ad amare nello stesso modo. "Amati, se Dio ci ha amato (così), anche noi dobbiamo amarci (così) gli uni gli altri" (1 Gv 4,11): non c'è soluzione di continuità, ma la conseguenza appare evidente. Se il torrente, il fiume d'acqua viva dell'amore si riversa su di noi, è necessario che ci facciamo trasportare in questa novità di vita. Il "Dobbiamo" prima di essere un imperativo morale è una conseguenza logica. "Così avviene a meno che opponiamo la nostra resistenza alla corrente che ci investe".
Nella traduzione della Bibbia che usiamo in Italia si salta la parola "così", ma mi sembra che è proprio la contemplazione del modo di amare di Dio che provoca nel cristiano un movimento d'amore per i fratelli. L'amore di Dio è così meraviglioso che non possiamo fare a meno di provare ad amare anche noi per ottenere nella nostra vita una tale bellezza!