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Che cosa vi è di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci invita? Ecco, il Signore, nella sua bontà, ci mostra il cammino della vita. RB, Prol 19-20

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Cistercense
Dominus Tecum

Lettera di S.Paolo ai Filippesi III

Omelie al Capitolo della comunità per la Quaresima - 05/03/2009

Filippesi 1,7-8

"È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo. Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù."

Paolo continua parlando del suo sentimento forte per i filippesi. Il suo ringraziamento al pensiero dei suoi amici viene dal suo sentimento, dal suo affetto, di tutto ciò che si muove tra la testa e il cuore al pensiero di quella comunità. Non è un giudizio freddo, obbiettivo, una valutazione dell'opera e della fede, perché li porta nel cuore cioè, è abitato nei pensieri, nelle decisioni, in tutto, dalla loro presenza. Naturalmente in maniera positiva. Portare nel cuore è qualcosa che non va svalutato e ridotto a una effusione affettuosa, è ciò che i cristiani devono vivere gli uni con gli altri “nell'amore di Cristo”.
L'esclusiva appartenenza al Signore, propria non solo dei monaci ma di tutti i battezzati, anche se i monaci con il celibato casto ne danno un segno forte e profetico, non esclude una vita di relazioni d'amicizia, di responsabilità, di portare il peso gli uni degli altri.
La castità è proprio la virtù che rende luminoso ogni rapporto umano, togliendo ogni possessività. É la nostra vita in comune con il rapporto comunitario che deve prevalere sui rapporti personali, secondo la frase biblica riportata dalla Regola di san Benedetto: “non fare preferenze di persone”, a immagine dell'amore divino. Per la Regola l'abate ne è l'icona, ma non è l'unico che deve vivere questo. Paolo dunque porta nel cuore coloro che partecipano della grazia a lui concessa. Nessuno riceve nulla dal Signore che non debba essere condiviso. Certo né il girare il mondo per evangelizzare, né le catene, ne la responsabilità pastorale sulla retta fede sono condivise materialmente. Ma tutti siamo uniti, partecipi di tutto. Anche questo monastero trova il suo segno, la sua icona: chi loda il Signore sette volte al giorno, chi accoglie gli ospiti, chi cura i malati ecc, non sono i singoli addetti temporaneamente a un preciso incarico ma il monastero, e tutti partecipiamo alla grazia di tutti, tutti portiamo il peccato e lo sbaglio di ciascuno, tutti camminiamo nel cammino di conversione non tanto dei nostri difetti ma di tutta la comunità (che naturalmente non sono gli altri ma io che convertendomi dal mio peccato tolgo macchie e rughe dalla comunità, che si presenterà bella come la sposa amata al Cristo Risorto).
Questo affetto profondo che Paolo ha per i filippesi è limpido davanti a Dio. Dio è testimone, quindi è sotto il suo sguardo che Paolo lo vive, e lo vive “nelle viscere di Cristo”. Spesso Paolo lascia il posto a Gesù: “non sono io che vivo, è il Cristo che vive in me”; qui è il suo grande affetto, certo umano e non iperspiritualizzato. Paolo lo vive lasciando l'amore di Cristo passare attraverso di lui per colmare di affetto i suoi amici.
Questo è per noi un vero cammino di conversione di tutta la nostra vita affettiva nel senso più bello, più pieno e più umano della parola. Da una parte non deve essere guardata con sospetto e quasi annullata, ma dall'altra si conforma, si unisce e quindi si spossessa per lasciare l'amore divino amare in noi. Quindi ogni attaccamento, vantaggio o compenso si ferma, lasciando il posto alla capacità di trasmettere agli altri quell'amore con cui Dio ci ama.