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Che cosa vi è di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci invita? Ecco, il Signore, nella sua bontà, ci mostra il cammino della vita. RB, Prol 19-20

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Cistercense
Dominus Tecum

Lettera di S.Paolo ai Filippesi XXVII

Omelie al Capitolo della comunità per la Quaresima - 07/05/2009

Filippesi 2, 12

Conclusione dell'Inno I

L’Inno che terminava con l’esaltazione del Nome di Gesù ci porta a pensare a quel modo, così cristiano e in particolare monastico, di pregare che è la ripetizione continua del Nome.
Tutti conosciamo la preghiera a Gesù e forse la pratichiamo con più o meno grande assiduità. Ma voglio cominciare questa riflessione semplicemente prendendo in considerazione la ripetizione del Nome, poi forse parlerò delle preghiere monologiche tradizionali.
E’ chiaro che se la tradizione cristiana ha dato tanto posto e tanto amore al Nome di Gesù è perché crede che Gesù è Risorto, è vivo ed è con noi. Questa è la base e la forza della nostra fede.
Nominarlo non è principalmente chiamarlo o invocarlo, è accogliere la sua Presenza, lasciarlo essere nella nostra vita, nel nostro agire, pensare, sentire, fare. E’ vivere con Lui, ma data la sua umanità divina o divinità umana, è sapere e volere che egli invada e diriga la nostra vita, volere di una volontà spirituale profonda e sempre rinnovata, non avere una antinomia o dicotomia in nessun luogo della nostra esistenza.
“Non permettere che io mi separi da te” dice la preghiera di S. Ignazio di Loyola.
Perché questa separazione non avvenga mai occorre avere il Nome di Gesù costantemente sulle labbra e nel cuore. La tradizione cristiana voleva che quando si moriva magari nella sofferenza, ma ancora coscienti, si pronunciasse come ultima parola il Nome di Gesù.
E’ dunque questo Nome che deve abitare tutto il nostro essere, che deve essere sussurrato quando siamo soli, passare dalla testa al cuore quando non siamo soli, lasciandolo cantare quasi istintivamente dentro di noi quando labbra, mente e pensieri sono occupati altrimenti.
Chiamare Gesù, come dicevo, non è farlo venire, perché già c’è, ma accogliere e riconoscere questa presenza e quindi entrare attivamente in un atto di fede.
L’accento con cui lo nominiamo può essere molto vario e non dipende da quello che dobbiamo fare, essere o pensare, ma da quello che siamo e viviamo in concreto.
E’ un grido nell’agonia, un canto nella gioia, un lamento nella tristezza, un respiro di riposo nella pace, un’aspirazione nel desiderio, un abbandono nella povertà, un’umile fiducia nel peccato.
Non esiste momento, situazione, stato d’animo in cui non si debba, o non si possa pronunciare il Nome di Gesù: neanche nel più grande momento di peccato, nella depressione, nella rabbia, o nel desiderio di vendetta.
Perché se cessiamo un minuto di credere che accanto a noi c’è il Salvatore misericordioso che ci ama così come siamo, andiamo alla deriva e siamo assaliti dai demoni dello scoraggiamento, dell’orgoglio, della disperazione che come leoni ruggenti ci stanno sempre intorno e che temono unicamente il Nome di Gesù che ci circonda come un solido baluardo.
Sempre dunque bisogna ripetere il Nome di Gesù.