Logo Dominustecum

A Dio, non a sé, attribuire il bene di cui ci si riconosce capaci. RB 4,42

fotogallery
Monastero
Cistercense
Dominus Tecum

Lettera di S.Paolo ai Filippesi XXIX

Omelie al Capitolo della comunità per la Quaresima - 12/05/2009

Filippesi 2, 12

Conclusione dell'Inno III

Dopo aver parlato del Nome di Gesù cerco di parlare brevemente della preghiera col Nome di Gesù, che nella tradizione orientale ha preso una forma ben precisa mentre in occidente si esprime con brevi giaculatorie e soprattutto col rosario in cui il Nome di Gesù è centrale, anche se la preghiera è rivolta a Maria.
In genere essendo il significato del nome Gesù: Salvatore, la preghiera prende un colore di salvezza dal peccato, non solo dai peccati che si commettono di volta in volta, ma da quello stato di miseria e di fragilità in cui il peccato ci ha messi e ci mette.
L’espressione in occidente più comune è: “Gesù mio, misericordia!”, che comporta una relazione affettuosa e intima e un aspetto di bisogno di salvezza. E’ lo sguardo di Gesù su di noi, il suo abbraccio di perdono e di forza che si invoca in ogni istante, perché in ogni istante siano perduti.
In oriente invece la preghiera a, o di Gesù è strutturata con un atto di fede che viene dal nostro inno: “Signore Gesù Cristo” (Gesù Cristo è Signore, dice l'Inno), a cui si può aggiungere un altro titolo che non proviene dall’inno: “Figlio del Dio vivente”, e anche questa è una professione di fede. Segue poi “abbi pietà di me”, che è la stessa radice greca di misericordia e che anche qui ha il senso dell’abbraccio vivificante di Dio misericordioso che toglie il peccato e rimette in piedi e del Dio di tenerezza che assiste il povero che grida.
“Il povero grida e il Signore lo ascolta” (Sl 33) – notiamo en passant che nella Regola di San Benedetto questa frase è ripresa, ma è il monaco che ascolta il grido del povero (RB 66).
In genere poi si aggiunge “peccatore” per sottolineare la verità della persona umana e la realtà del bisogno della pietà del Signore verso ciascuno di noi.
Come ho già accennato, questa preghiera si dice lentamente, a bassa voce se si è soli e solo fra mente e cuore se ci sono altri, ripetendola in ogni momento.
Perché sgorghi quasi spontaneamente è bene “metterla nel cuore” in un tempo in cui la si dice espressamente, poi nella giornata la si riprende quasi spontaneamente.
Con molti padri sono contrario a una forzatura del respiro, perché può comportare deviazioni psicologiche e anche spirituali o per lo meno psicofisiche. Quello che però è naturale è che tutto in noi si calmi mentre si dice la preghiera, per cui anche il respiro diventa più calmo e regolare.
L’attenzione attraverso le parole ci porta verso la presenza di Gesù e, come nel rosario, questa presenza prende molti volti a seconda dello stato d’animo, della lectio che abbiamo fatto o della liturgia che celebriamo: tempi liturgici, feste, ecc.
E’ il lavoro del Nome in noi, quello di ricondurre al Volto, non perché provochi delle visioni – guai!: non voglio vedere Gesù prima di vederlo in Paradiso, dice una sentenza dei Padri – ma perché il Volto pieno di tenerezza, bontà e misericordia è ciò che mi tiene alla presenza di Dio.
La preghiera è detta meglio, nel modo migliore, quando tutto diventa semplice e non ci sono forzature. Ma questo è in genere frutto di un lungo esercizio.
Chiediamo a Gesù stesso o a Maria di insegnarci a pregare.