Che cosa vi è di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci invita? Ecco, il Signore, nella sua bontà, ci mostra il cammino della vita. RB, Prol 19-20
Leletta 10 anni dopo
P. Cesare Falletti O. Cist. - St Pierre - 15/06/2003
(Appunti di p. Cesare scritti a mano copiati da altra persona con alcuni dubbi di lettura, non rivisti dall’autore)
Leletta d’Isola ha avuto una grande importanza per la fondazione del Monastero, perché non solo ha donato, insieme al fratello Aimaro, il terreno, ma ha espressamente chiesto ai monaci di Lérins di venire a fondare il monastero e finché ha vissuto ha pregato e consigliato saggiamente i primi passi della preparazione alla venuta dei monaci cistercensi).
Abbiamo già parlato tanto di Leletta e c’è sempre il rischio, a parlarne troppo, di farne un personaggio da manuale, senza ombre o difetti ma anche senza personalità e lontano da noi.
Ora Leletta era proprio il contrario: era una persona viva e vivace, che si lasciava coinvolgere da persone, cose e avvenimenti, infuocata e appassionata nei dibattiti, partecipe delle gioie e delle pene.
Appassionata spesso anche un po’ oltre la misura e questo la rendeva tanto “umana” nei vari significati di questa parola
- gentilezza, garbo, educazione, attenzione: l’humanitas del mondo latino
- dolcezza, compassione, cuore aperto
- fragilità, in lei soprattutto fisica, carattere ecc.
Oggi mi si chiede di parlarne ancora, di sottolineare alcuni aspetti che possono essere utili a tutti, sia per spronare che per consolare.
Lo faccio volentieri perché “studiare” Leletta è sempre un grande piacere e se ne ha [trae ?=??] grande profitto.
Ho preso qualche tratto, qualche pista, qualche parola fra le tante,
e da benedettino qual sono interrogo sulla
ricerca di Dio.
Cercare Dio è il modo per dirigersi verso lo scopo della vita, che è amare, incontrare, vedere e gioire di Dio.
Leletta nella sua vita e nel suo insegnamento – in lei perfettamente coerenti perché sapeva unire all’enunciazione del principio assoluto la coscienza di tante fragilità umane – sottolinea che non vuole
cercare altro che il suo Dio.
Questo lo deve ai suoi maestri tomisti (P. Pera in particolare) , ma va oltre perché non sottolinea solo l’aspetto: perché Dio è degno di essere cercato – quasi un dovere inesorabile – e questo certo non lo nega, ma sottolinea soprattutto che il cercarlo rende felici.
Cercare Dio per la gioia di essere suoi amici, o meglio di accogliere il dono della sua amicizia.
Leletta molte volte sottolinea la sua certezza di poter raggiungere la vera amicizia con Dio e sempre ha mostrato la parresia (franchezza, spigliatezza, semplicità, spontaneità, coraggio) che la faceva volare più alto dei serafini i quali si coprono il volto con le ali, mentre lei voleva puntare il suo sguardo in Dio per vederne la tenerezza.
Certo è stata una adoratrice profonda e ha avuto un gran senso della maestà di Dio e del fatto che l’uomo deve adorare, ma tutto è completato, forse superato, reso vivo e bello dalla possibilità di essere amici di Dio.
L’amicizia rende uguali, ma è un dono puro e totale.
È importante “sbriciolare la propria vita per Gesù” come Gesù nella sua kenosi l’ha sbriciolata per noi.
Credo che occorra guardare “i tempi”.
C’è una transizione: Leletta ha vissuto a cavallo fra una religiosità molto compresa nel timore di Dio, che dava del “voi” a Dio e non osava rischiare un rapporto aperto e libero, e quella del dopo ’68 fin troppo disinvolta nel rapporto con il Signore, visto unicamente come compagno di viaggio, amico di gioco, che alla fine perde il senso della trascendenza e quindi della fiducia e dell’abbandono.
Il rapporto di Leletta con Dio è quello di un’amicizia gioiosa e stupita: ricorda quello di Teresa del Bambin Gesù (S. Teresina), dottore della Chiesa, di cui sa ammirare e imitare la semplicità quasi fanciullesca e l’energia.
Leletta non cessa di ricordare che è solo perché Dio ci ha dato suo Figlio fatto uomo come noi, che noi possiamo avvicinarlo, amarlo, essergli amici.
Cercare Dio per vivere di amicizia con Lui non è uno sforzo umano ma pura benevolenza divina.
C’è una sua parola significativa quando fa la distinzione fra il riso di Dio (di cui la Bibbia parla, ma che non è segno di prossimità con l’uomo) e il sorriso (di cui la Bibbia non parla), aggiunge: “sorriso di Dio è la luce del suo volto, cioè il volto illuminato verso di me”. Sottolinea così magistralmente la prossimità di Dio e la sua benevolenza.
Cercare Dio, onorarlo, adorarlo, lodarlo e benedirlo perché Egli ne è degno – non perché ci si trovi la propria felicità – come le diceva P. Pera, è senz’altro qualcosa che ha recepito per arrivare a quel dis-centramento del proprio essere che le ha permesso di essere totalmente centrata in Dio. Ma non mi sembra che ci si possa fermare lì.
Nel condurre le anime – ma non era metodo, era quello che viveva – ha superato quel concetto un po’ astratto, troppo logico, per presentare l’incontro, il fine della ricerca come amicizia: è una felicità a due, felicità di essere in due, di essere con e per l’altro, ma anche di ricevere l’altro che si dona totalmente.
“Per fare amicizia con l’uomo – scrive – (Dio) si è fatto uomo, che è molto più che se io mi facessi pidocchio per solidarizzare con i pidocchi”.
Con il suo senso dell’umorismo e con grande abilità didattica, Leletta così sottolinea la grandezza del gesto divino e la gratuità del suo amore infinito, ma anche il fatto che è possibile vivere un’amicizia umana (cioè nell’unico modo in cui a noi è possibile) con Dio.
L’amicizia ha un solo volto, per cui parlando dell’amicizia con Dio Leletta parla anche dell’amicizia fra persone umane, che è condivisione di segreto, dono di sé, e soprattutto mutua fiducia. Non è qualcosa su cui si calcola o ragiona, per cui si cercano dei frutti o dei vantaggi, ma qualche cosa a cui ci si affida e in cui ci si affida, ci si mette nelle mani di un altro.
Certo, per l’amico si può agire, fare, darsi da fare, ma non è questo che costituisce l’amicizia.
Quando parla del mistero del male Leletta non dà spiegazione, anzi sottolinea che l’Agnello su cui il male si è scatenato non ci ha tolto dalla fossa dei leoni, “«non mi hai tolto: sei venuto Tu» a condividere la sofferenza...”[1]
Certo l’amicizia divina è redentrice e ci introduce nella vita trinitaria perché “è unitiva” – e quindi ci cambia – ci salva e ci rende salvatori come il lievito che può far crescere la pasta.
Quella umana ci rende presenti, ma non ci unisce quanto quella divina e non ci comunica tutta la potenza dell’amico.
L’amicizia si manifesta anche con delle cose esterne, ma che non sono l’amicizia. Questa è “unione in radice” [Leletta scrive “un’unione ... di radice (N.d.r.)] cioè alla base nascosta della vita.
Con quel senso paradossale dell’assoluto Leletta riesce a dire (cosa che può scandalizzare): “In Charitate radicati e le manifestazioni contano poco”[2]. Eppure tutti sappiamo che questo non le ha mai fornito la scusa per tenersi distante o lavarsi le mani. Anzi avrebbe voluto “coprire di doni” – e non perdeva occasione di farlo – ma quello che per lei contava veramente era il legame profondo: “Quando si è lontani le amicizie si fanno più vicine, più intime”. Ed è esemplare, al tramonto della sua vita, come spiega il suo ricordo per tanti nomi e tante amicizie: “Le ricordo perché ho qui nel cuore tutti i loro problemi, son questi che mi pesano sullo sterno, come un macigno”[3]
Con questa parola vorrei passare ad un altro punto: la compassione.
Stava nel fosso profondo dell’angoscia, della solitudine, delle sofferenze fisiche e morali, dei tradimenti e delle depressioni dove sapeva che stavano i suoi amici. L’amicizia non ammette distanze, tanto che è con profonda ironia che commenta la frase: “amare con distacco”: idiozia, contraddizione, come dire “stare vicini da lontano”. Non accetta che l’amore per Dio tenga lontano dagli uomini, ma anche l’amore umano deve portare gli amici insieme verso l’alto, verso Dio.
Ora il modello della compassione è Maria – che è sempre il punto di riferimento e d’imitazione per Leletta.
Vorrei citarvi un detto dei padri del deserto che non ho trovato in Leletta, ma che rientra bene nella sua visione.
Al vecchio Abba Poemen, caduto in estasi davanti a un giovane discepolo, questi dopo chiese: «Padre, dove sei stato?», e Poemen rispose: «Ero con la Madre di Dio sotto la croce su cui moriva suo Figlio. Vorrei piangere tutta la mia vita come lei». Cioè il massimo della carità è la com-passione di Maria per Gesù, compassione che la rende corredentrice [???].
Leletta dice: “A Maria fu chiesta la sofferenza più tipica della donna, quella della partecipazione”[4], ma in verità anche l’uomo non ne ha altra di più grande. L’uomo, anche il maschio, raggiunge il massimo della carità nella parte “femminile” perché è quella che più si unisce all’amato. Siamo tutti fatti per essere “Sposa di Cristo e sua Madre per partorire i figli di Dio”.
Leletta non vuole compassioni tristi e smorfiose: proprio perché vede la compassione in Maria, la vede come qualcosa che conduce alla gioia.
La parola che riecheggia nel cuore di Maria in ogni circostanza è “Rallegrati”. Maria sotto la Croce ama con forza e la sua compassione non è un pianto depresso – che è sempre ripiegamento su di sé – ma cammino pasquale, morte con il Figlio verso la Risurrezione.
A Cana e sotto la Croce Maria ha fretta per il bene dell’umanità, che, morta, deve risorgere. (Fretta della Visitazione).
In Leletta questa fretta di Maria si traduceva in molti atteggiamenti: quando intuiva che c’era un progetto di Dio non dava tregua, quando vedeva qualcuno esitare nelle scelte lo spingeva senza tanti complimenti.
E anche quando c’era da fare il bene: era subito.
Ardore di Maria, carità, amicizia.
Maria è per Leletta sempre di esempio, o meglio è colei che ha vissuto la sequela Christi in modo perfetto, tanto che dobbiamo sempre fare come lei per essere veri amici di Cristo.
In Maria, la panaghía (tutta santa – che Leletta traduce «tutta di Dio») amicizia divina e amicizia umana sono la stessa cosa.
Diventa Madre di tutti perché è tutta di Dio: entra in un rapporto intimo con ciascuno quasi al seguito di Colui a cui appartiene totalmente. Pensiamo alla frase paolina: “Il Cristo mi ha amato e si è dato per me”. (Ga 2,20)
Questo rapporto totale e personale di Gesù con ciascun uomo che vuole redimere, salvare, unire a sé nella gloria trinitaria diventa rapporto di Maria: “che desidera e può essere un po’ presente nei suoi ritratti”[5], cioè nei figli che vivono portando l’immagine del Figlio.
E infine vorrei sottolineare ancora un tratto (fra i tanti) della spiritualità di Leletta. In tutto è positiva.
Cerca Dio e, anche se questo certamente implica il dis-centramento e la rinuncia a sé, non vi fa caso. In tutto cerca ciò che vi è di bello, di grande, di gioioso, di pienezza, perché Dio è tutto questo.
Dio non è “rinuncia a sé”, ma è pienezza “altra” che comporta l’uscita da sé, senza diventare alienante. Certe frasi pie come “carnefice del mio io” non le piacciono. Eppure è fortemente esigente: poche “madri spirituali” sono state capaci di chiedere tanto senza togliere nulla. “La definizione di una persona non è data dal sub ma da quello che può essere con la grazia”.
La grazia mette in risalto la natura facendone apparire i lati belli, positivi, fecondi e quindi togliendo quelle scorie che noi riteniamo importanti.
Ricorda S. Caterina che dice che “Grazia è lavarsi la faccia nel Sangue del Signore perché il Signore l’ha sparso perché ci vuole belli”.
Dio non ci ha fatti per deprimerci, per umiliarci, ma perché attraverso la Grazia (il suo Sangue, il suo Spirito), giungiamo alla sua Gloria,
e il cammino per arrivarci è
- la libertà dalle cose: saper fare, impegnarci rimanendo liberi
- la libertà dalle occupazioni: saper servire per amore e non per obbligo o per compiere imprese e acquistarsi meriti
- la libertà dalle persone, condizione per la vera amicizia.
Saper vivere in tutto la lode: che le persone ci siano date o ci siano tolte, che ci facciamo del bene o del male, è essenziale vivere nella lode.
E tutto questo porta a un grande abbandono fiducioso, non a fare o ad avere di più, ma ad essere sempre più piccoli e fiduciosi e gioiosi della propria impotenza.
Questo ci preserva dallo scoraggiamento, che è una tentazione contro cui Leletta combatte molto, unito alla depressione così diffusa ai giorni nostri: “Il Principe di questo mondo non manda più la peste nera per rovinare l’opera di Dio ma si sfoga sui nervi delle persone!”.
Non è un facile ottimismo (l’ottimismo naturale rimane limitato dalle prove – e Leletta ne ha avute) ma quello profondo che è fondato sulla Roccia: "Dio vuole l'uomo grande e lo eleva fino a sé".