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I cistercensi

Spiritualità e insegnamento - 10/12/2004

Il grande rinnovamento spirituale promosso dalla Riforma Gregoriana stimolò il desiderio generale di far ritorno alle fonti del cristianesimo per infondere nuova vita e migliorare il mondo secondo i nobili ideali della Chiesa primitiva. Quanti si sforzavano di purificare la gerarchia e il clero secolare dalle lusinghe del mondo, guardavano all’esempio lasciato dagli Apostoli; vari movimenti laicali trovavano nel Vangelo la fonte dì una ispirazione nuova per il loro programma di ricostruzione sociale e religiosa; all’interno delle comunità monastiche divenne sempre più forte il richiamo delle più antiche tradizioni dei Padri del Deserto.

Tale movimento generava un interesse crescente per la cristianità orientale e soprattutto per la Terra Santa, mentre i legami affettivi con il vicino Oriente sollecitavano una grande curiosità verso le sorti dei grandi santuari di Gerusalemme. L’entusiasmo di tutto il mondo allora conosciuto raggiunse il vertice al tempo della Prima Crociata: la società cristiana, unanimemente, si appassionava di ardente zelo per il Cristo e la Sua causa.

La riforma monastica dell’XI secolo, penetrata dello stesso spirito eroico, si trovò alle prese con un problema specifico: l’ovvia contrapposizione tra gli esempi lasciati dai Padri del Deserto e la Regola di san Benedetto, diffusa ovunque. Autorità influenti e di primo piano, quali san Pier Damiani, non esitavano a risolvere il dilemma dichiarandosi coraggiosamente in favore della vita eremitica, dimostrando che la Regola era stata scritta solo per i principianti, mentre l’imitazione dei Padri del Deserto doveva condurre alla perfezione. Un certo numero di comunità religiose venne organizzato secondo i nuovi ideali: e le più significative furono quelle di Camaldoli e di Vallombrosa.

Al Nord delle Alpi, l’influenza diretta di Pier Damiani e dei suoi seguaci non fu decisiva. Ma in Francia, una lunga serie di riforme, più o meno felici, si rivelò animata da ispirazioni analoghe. Stefano Muret, Bernardo di Tiron, Bruno di Colonia, Roberto di Arbrissel, Vitale di Mortain e molti altri, criticavano unanimemente le condizioni del monachesimo contemporaneo e, ispirati dalle virtù eroiche dei Padri del Deserto, cercavano di riorganizzarlo facendo ritorno all’ascetismo severo delle forme di vita prebenedettina. I loro programmi avevano dei punti comuni: separazione totale dal mondo, grande povertà, rigorosa penitenza, pur variando considerevolmente nelle realizzazioni pratiche.

In questa atmosfera di attività di riforma febbrile, l’iniziativa di san Roberto, difensore infaticabile del rinnovamento della vita monastica, non appariva straordinaria. Quando egli e i suoi compagni intrapresero la fondazione di Molesme, lo scopo che si prefiggevano non si allontanava molto da quello dei loro predecessori o contemporanei, che si affaticavano prodigandosi nella stessa direzione. Lo sforzo di Roberto di Molesme venne ricompensato da un successo considerevole. Ma con l’aumentare del numero dei monaci si ripresentava ancora una volta il problema cruciale: l’interpretazione esatta della Regola di san Benedetto. Discussioni violente disturbavano la pace della giovane comunità, e l’Abate e i suoi fedeli discepoli si trovarono più volte esposti al bisogno di cercare rifugio e consolazione nella solitudine degli eremitaggi vicini. A conclusione di prolungati dibattiti, i sostenitori di Roberto giunsero ad una risoluzione importante: per far rinascere gli ideali fondamentali della vita monastica, i monaci dovevano fare ritorno a un’obbedienza integrale alla Regola e abbandonare qualsiasi altra interpretazione o modifica successiva. La realizzazione pratica di tale principio portava, attraverso l’interpretazione più fedele di un testo giuridico antico di sei secoli, all’istituzione di una vita di privazioni, in tutto degna degli eroici esempi dei Padri del Deserto, pur superando innegabilmente, quanto a severità, l’autentica intenzione di san Benedetto. Ma i riformatori di Molesme non erano in grado di rendersene conto: il loro continuo riferimento alla Regola costituiva un solido fondamento giuridico contro ogni critica od opposizione alla loro causa.

Così, la scelta di vivere secondo la Regola, senza cedere a compromessi, insieme a un ardente desiderio di solitudine, divenne la pietra angolare della fondazione di Cîteaux. In tale abile combinazione degli ideali ascetici dell’eremitismo popolare con la forma tradizionale della vita monastica benedettina, consiste propriamente l’importanza della riforma cistercense. Cîteaux dava ampia possibilità di seguire le virtù eroiche dei Padri del Deserto a quanti lo desideravano, salvando al tempo stesso il carattere cenobitico della vita monastica e l’autorità ormai assoluta di san Benedetto e della sua Regola.

Il consolidamento del Nuovo Monastero fu opera dei successori immediati di Roberto, Alberico e Stefano. È difficile determinare quale parte giocò l’uno o l’altro nella formazione della spiritualità cistercense. Nei primi documenti di Cîteaux, le virtù sottolineate con maggiore forza sembrano essere quelle della povertà, della semplicità e del distacco da ogni forma di coinvolgimento con il mondo. La povertà e la semplicità estrema, in ogni tappa della vita dei fondatori, furono conseguenze naturali delle circostanze ardue in cui vennero a trovarsi. La separazione completa dal mondo comportò un duro lavoro manuale per tutti i monaci, mentre nei monasteri del tempo esso era assicurato dai servi. Una tale fatica umile ed estenuante divenne un’altra caratteristica tipica dell’Ordine; dopo qualche anno poté essere condivisa con un numero crescente di fratelli conversi. Agli inizi, il duro compito di diradare gli alberi e dissodare la terra aggravava a tal punto la già grande fatica dei monaci, che tutti coloro che desideravano entrare nella nascente comunità venivano scoraggiati a causa della «insolita e quasi inaudita austerità del loro tenore di vita» (Piccolo Esordio).

I documenti scritti che riportano i primi vent’anni della storia cistercense (per esempio l’Esordio di Cîteaux e la più antica versione della Carta di Carità) sono stati attribuiti tradizionalmente a Stefano Harding, anche se ciò non è del tutto certo. Si possono riconoscere come opera originale di S. Stefano soltanto tre lettere e il breve prefazio scritto per il nuovo Innario. Egli contribuì comunque in modo decisivo a creare quell’atmosfera spirituale e intellettuale che risultò irresistibile per i suoi migliori contemporanei.

Nonostante lo spirito così forte di austerità ascetica abbracciata senza compromessi, Cîteaux divenne, durante l’abbaziato di Stefano Harding, un centro di cultura monastica unico nel suo genere. È difficile concepire come una piccola comunità, in un monastero remoto, potesse realizzare compiti tanto difficili come una riforma liturgica su larga scala, la collezione di inni autentici e la revisione delle melodie gregoriane, l’edizione critica della Bibbia e la stesura di un testo giuridico ammirevole per saggezza e lungimiranza. Per poter portare avanti impegni di questo genere, Stefano poté senza dubbio contare sulla collaborazione di abili confratelli. Il Piccolo Esordio afferma esplicitamente che Alberico, il predecessore di Stefano, era un uomo di lettere, ben versato nelle scienze umane e divine; e quando, successivamente, un grande afflusso di nuovi candidati venne al monastero, lo stesso documento registrava con gioia che molti di essi erano nobili chierici istruiti. Lo stesso Stefano si permise una sola eccezione, ma molto significativa, sul suo programma di austero ascetismo: rimase un appassionato amatore di bei libri. I manoscritti copiati a mano nei primi tempi di Cîteaux restano fra i codici miniati nel modo più splendido, fra tutti quelli del secolo.

Pur dando al genio di Stefano Harding il credito che gli è dovuto, bisogna comunque ammettere che il successo fenomenale di Cîteaux è merito di san Bernardo di Clairvaux (1090-1153). Il fascino della sua personalità attraeva all’Ordine migliaia di vocazioni, la profondità della sua spiritualità arricchiva il moltiplicarsi delle fondazioni, la sua penna magistrale faceva giungere il messaggio di Cîteaux non soltanto a tutti i suoi contemporanei, ma anche a tutte le future generazioni della cristianità occidentale.

L’educazione teologica di Bernardo, prima del suo ingresso a Cîteaux nel 1113, non era eccezionale; ma a Cîteaux, sotto la guida di Stefano, e dopo il 1115 come abate di Clairvaux, ispirato da amici come Guglielmo di Saint-Thierry, ebbe l’occasione di familiarizzare con tutta la tradizione patristica latina, soprattutto sant’Agostino ed anche un po’ dei Padri Greci, come Gregorio di Nissa ed Origene, le cui opere erano accessibili in traduzioni latine. Altro elemento fondamentale della sua spiritualità come della sua teologia fu una sorprendente conoscenza della Bibbia. Lo stile, il vocabolario e il linguaggio figurato dei suoi scritti traboccano a tal punto di allusioni bibliche, che la comprensione o la valutazione esatta del suo pensiero risultano impossibili senza il confronto costante con il Nuovo e l’Antico Testamento.

L’orientamento dello spirito di Bernardo era essenzialmente conservatore. Egli diffidava della nascente filosofia scolastica, così come era rappresentata da Abelardo e da Gilberto de la Porrée, e si batteva con tutte le proprie forze contro la corrente che tendeva a separare la ragione dalla fede, la teologia dalla vita. Per lui filosofia, teologia, moralità e religiosità della persona si fondevano in un’unica ricerca: «conoscere Gesù e Gesù crocifisso».

Ampio fu il raggio di estensione degli scritti di Bernardo, ma in tutti parlava sempre il monaco, l’uomo di Dio. Le sue intuizioni penetranti, intensamente personali e partecipate andavano invariabilmente nel senso di una conoscenza sempre più piena e di un amore sempre crescente nei confronti di Dio.

Il primo grande saggio, in ordine cronologico, fu quello Sui gradi dell’umiltà e della superbia, approfondimento dei capitolo settimo della Regola, in cui Benedetto indicava 12 gradi di umiltà tramite i quali raggiungere la perfezione. Bernardo, utilizzando la sua straordinaria penetrazione della natura umana, meditava sui dodici gradi di orgoglio come sugli ostacoli principali della via che conduce alla perfezione monastica. Più famosa è L’Apologia all’Abate Guglielmo, scritta dietro richiesta del suo amico, Guglielmo di Saint-Thierry, come contributo di Bernardo alla contesa fra Cîteaux e Cluny. In quanto accesa difesa della vita e degli ideali cistercensi, venne utilizzata inoltre quale brillante accusa alla stravagante grandezza di Cluny. I dettagli satirici e i paragraf i sul ruolo dell’arte nella vita monastica sono tra le pagine più frequentemente citate della letteratura bernardina.

Il trattato Sull’Amore di Dio si avvicina di più a un’esposizione sistematica sulla teologia mistica di Bernardo. Scrivendo invece quello Sulla Grazia e il libero Arbitrio riprendeva la posizione ferma di sant’Agostino sulla necessità della grazia, che libera la natura umana dalla schiavitù del peccato, attraverso i meriti salvifici di Gesù Cristo. Sollecitato da alcuni confratelli, Bernardo si dedicava ancora ai problemi sollevati dall’interpretazione della Regola e elaborava alcune dissertazioni Sul Precetto e la Dispensa. L’ultima delle sue opere maggiori, Sulla Considerazione, dedicata al Papa cistercense Eugenio III, avrebbe anche da sola assicurato la fama immortale dell’autore. Questo libro raccoglie il pensiero del Santo sui problemi più gravi del suo tempo: la natura della Chiesa e del Papato, messi a confronto con le questioni sollevate dalla riforma Gregoriana e la lotta delle Investiture.

La popolarità di Bernardo fra i contemporanei era fondata in gran parte sulla collezione dei suoi sermoni, composti in primo luogo per ambienti monastici. Sono sopravvissute più di trecento omelie, accuratamente composte e redatte; ognuna di esse costituisce da sola un monumento all’inimitabile creatività artistica ed esperienza personale dell’autore. Quanto al contenuto, la maggior parte si rivela impregnata della tradizione patristica. Anche nelle sue più meditate riflessioni su Cristo e sulla Madonna, Bernardo si dimostrò continuatore geniale e ricco di creatività del pensiero dei suoi predecessori più che innovatore audace. Gli 86 sermoni sul Cantico dei Cantici costituiscono invece delle eccezioni: in essi Bernardo ebbe modo di rivelare e condividere le sue esperienze mistiche. Con le allegorie ben elaborate di quest’opera, egli si affermò come padre della mistica medioevale; il suo esempio incoraggiò un lungo seguito di autori che si sentirono sollecitati a presentare le proprie riflessioni ed esperienze sotto le immagini dello stesso contesto biblico.

Dal punto di vista storico, l’epistolario, di cui si conservano circa cinquecento lettere della corrispondenza di Bernardo, è particolarmente importante: in esso si ritrovano gli echi di quasi tutti gli eventi o problemi in cui il Santo ebbe a sostenere un ruolo di primo piano o almeno un’analisi intelligente e interessata, come osservatore acuto. In queste lettere emerge a piena luce la complessità del carattere dell’autore ed insieme il suo possesso magistrale di tutti gli elementi dell’arte letteraria contemporanea.

San Bernardo emerge nella propria epoca, come la figura religiosa più grande del suo secolo ed una delle più grandi di tutti i tempi. I posteri hanno unanimemente e generosamente riconosciuto la grandezza della sua dottrina e la santità della sua vita. Papa Alessandro III lo canonizzò il 18 gennaio del 1174; Innocenzo III lo riconobbe Dottore Egregio; gli studiosi del Rinascimento, facendo allusione alla sua dolce eloquenza, preferirono attribuirgli il titolo di Doctor Mellifluus. Si riconosce in lui quasi un ponte tra la patristica e la teologia scolastica ed è stato venerato quale ultimo dei Padri. Pio VIII, nel 1830, lo riconobbe come Dottore della Chiesa Universale, attribuendogli così un titolo che, ancora recentemente, voleva mettere in luce il posto che egli occupa nella storia.

Amico congeniale e primo biografo di san Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry, (1075-1148), deve essere riconosciuto quale teologo-monastico di primo piano del secolo dodicesimo, benché fino a poco tempo fa la sua grandezza sia stata un po’ messa in ombra dalla rinomanza di san Bernardo. Guglielmo, monaco benedettino molto colto, incontrò per la prima volta Bernardo nel 1118 e restò immediatamente affascinato da quel monaco cistercense, di molto più giovane di lui. Ma Guglielmo era in grado di dare tanto quanto doveva ricevere. Fu probabilmente Guglielmo che introdusse il giovane abate alla lettura dei Padri Greci. Guglielmo, che in quel momento era monaco di Saint-Nicaise di Reims, avrebbe desiderato subito diventare monaco di Clairvaux. Ma fu eletto abate di Saint-Thierry nel 1119, e dovette restare in carica fino al 1135, quando poté dare le dimissioni e ritirarsi nell’abbazia cistercense di Signy.

L’affinità spirituale ed intellettuale fra Guglielmo e Bernardo era tanto grande che molti trattati composti da Guglielmo circolarono per secoli sotto il nome di Bernardo. Così accadde anche per la sua opera più grande, una sintesi della sua teologia mistica indirizzata ai monaci della Certosa e conosciuta più tardi con il titolo di Lettera d’Oro. Gli altri suoi scritti, tra cui La contemplazione di Dio, La natura e la dignità dell’Amore, svolgono lo stesso tema: l’ascesa dell’anima verso Dio. Guglielmo aveva la convinzione assoluta che Dio può essere trovato nell’anima dell’uomo, che porta in sé, indelebile, l’impronta del suo Creatore. In tutte le sue opere, Guglielmo si dimostrò pensatore profondo; la sua dottrina si differenzia da quella di san Bernardo per un rapporto più stretto con Agostino e i Padri Greci, ed anche per il più marcato carattere trinitario della sua concezione mistica.

Il terzo grande luminare del monachesimo cistercense del XII secolo fu Elredo (1109-1167) – monaco e poi abate di Rievaulx. Nato nella regione della Northumbria, venne cresciuto alla corte del Re Davide I di Scozia e ricevette un’educazione eccellente, in un ambiente estremamente religioso. Elredo entrò a Rievaulx nel 1134, a 25 anni, e ben presto raggiunse in Inghilterra una statura spirituale pari a quella di Bernardo in Francia; infatti, i contemporanei spesso lo indicano con l’appellativo di Bernardo del Nord. Direttore spirituale dotato di una personalità in certo senso “magnetica”, Elredo divenne per molti aspetti simile all’abate di Clairvaux pur restando pensatore ed autore meno creativo. Egli condivideva il profondo interesse che i suoi monaci portavano alla natura dell’anima, e scrisse un dialogo su questo tema, intitolato Sull’anima, in cui seguiva la scia del pensiero di Agostino. La sua opera più conosciuta è L’amicizia spirituale, stesa ancora come un dialogo, e che tratta, sotto l’ispirazione di Cicerone, un tema che aveva molto a cuore. Contributi alla letteratura di devozione furono l’opuscolo Gesù a dodici anni e una raccolta di Preghiere, di una pietà ricca di fascino e di semplicità. Oltre a diverse collezioni di sermoni, lasciò degli scritti agiografici e perfino un lavoro di storia, notevole per importanza, Genealogia dei Re di Inghilterra. Purtroppo è stata conservata solo una minima parte della sua estesissima corrispondenza. Più degli scritti, fu il fascino della sua personalità a sopravvivere a lungo nella memoria dei monaci della sua abbazia: essa è ben tratteggiata in una biografia, scritta da uno dei discepoli più cari, Walter Daniel.

Sulle orme di questi tre giganti, molti autori cistercensi, contribuirono all’approfondimento della teologia monastica, nella misura in cui lo permettevano loro il talento e la cultura. Quanti ebbero l’occasione di venire a contatto, in modo più o meno diretto, con san Bernardo e Clairvaux, costituiscono una scuola di spiritualità tipicamente bernardina.

Emerge tra questi Guerrico (1070-1157), che trascorse a Clairvaux 15 anni, ma concluse la propria vita come abate di Igny. Oltre a 44 sermoni liturgici, accuratamente composti, si attribuisce a Guerrico un trattato – Il desiderio dell’anima verso l’Amore – elogio della vita monastica, trascorsa nella felice contemplazione dei misteri divini.

L’inglese Isacco (1100-1167) abate dell’abbazia francese della Stella, continuava la tradizione bernardina nella sua collezione di sermoni, che trattano vari temi con una conoscenza più grande della metafisica che dell’esperienza mistica. Ebbe maggiore influenza la Lettera sull’anima che comprendeva una classificazione un po’ ricercata delle facoltà spirituali ed intellettuali. Un altro suo trattato, Sull’Ufficio della Messa, esamina il tema da un punto di vista allegorico. Il lavoro di Alcherio di Clairvaux (1110 ca-1165), con il titolo di Lo Spirito e l’anima, intendeva rispondere al trattato di Isacco, e per un certo periodo venne anche attribuito ad Agostino, pur trattandosi di una semplice compilazione, ricca di definizioni e classificazioni, presa a prestito da varie fonti.

Goffredo di Auxerre (1120 ca.-1188), che era stato discepolo di Abelardo, e poi segretario fedele e biografo di Bernardo, divenne per alcuni anni abate di Clairvaux (1162-1165). Egli lasciò alcune collezioni di sermoni, incluso anche un commento al Cantico dei Cantici. Un altro segretario del Santo, Nicola di Clairvaux (1110 ca.-1180), arricchì la posterità con ì suoi sermoni, soprattutto quelli sulla Santa Vergine, e con la sua corrispondenza. Ugo, primo abate di Pontigny, (1085-1151) un nobile, parente di Bernardo, scrisse un certo numero di omelie per le varie feste del calendario liturgico. Serlo, abate di Savigny (1092-1158) e Amadeo, monaco di Clairvaux (1110-1159), divenuto poi abate di Hautecombe e quindi vescovo dì Losanna, contrìbuirono anch’essi alla redazione di sermoni analoghi. Enrico di Marry (1140-1189) aveva predicato tra gli eretici della Francia del Sud e fece pubblicare un lavoro sulla ecclesiologia dal titolo La città di Dio in cammino.

Gilberto di Hoyland (1109-1172), abate dell’abbazia inglese di Swineshead e amico di Elredo tentò anch’egli di continuare il commento di san Bernardo al Cantico dei Cantici. Altri si misero a proseguirne l’opera, un po’più tardi: Tommaso “il cistercense” di Perseigne (1120 ca.-1190), e due inglesi, Giovanni di Ford (1140-1220; era stato abate della sua comunità) e Gilberto di Stanford. Questa generazione tardiva della scuola bernardina comprende anche l’abate Adamo di Perseigne (1150 ca.-1221), autore di sermoni e di lunghe lettere ai confratelli, ed Elinando (1160-1235), Priore di Froidmont, che era stato trovatore, un bravissimo poeta che, oltre ad omelie e lettere, lasciò altri scritti tra cui trattati sulla conoscenza di sé e principi di governo, ed una cronaca della storia mondiale contemporanea. Giovanni di Limoges, professore all’università di Parigi, uomo di vasta cultura, visse a Clairvaux tra il 1246 e il 1270. La maggior parte delle sue opere più importanti e più diffuse fu senz’altro composta durante gli anni trascorsi a Parigi. Da monaco, scrisse alcune collezioni di sermoni, una esposizione sul salmo 118, un trattato sull’esenzione dei monaci e un breve saggio sul silenzio monastico.

Gli autori cistercensi che non appartenevano alla scuola di san Bernardo furono numerosissimi, ed altrettanto svariati gli argomenti che essi trattarono. Il più sconcertante quanto a natura e a finalità fu un discorso sulle barbe Apologia sulle barbe, opera di Buchard, primo abate di Balerne e poi abate di Bellevaux (1100 ca.-1163). Si trattava di una strana miscela di brani ora comici ora seri, che riempivano 100 pagine in folio, indirizzati ai fratelli conversi, che, per esserericonosciuti, erano obbligati a lasciarsi crescere la barba e venivan perciò chiamati barbuti. Odone di Ourscamp, che poi divenne Cardinale, (1115 ca.-1172) e Thomas di Froidmont, dedicarono le loro opere alle monache cistercensi. Garnier di Rochefort, divenuto in seguito Vescovo di Langres (1140-1200), pubblicò una collezione di sermoni. Arnold di Bohéries compose verso il 1200 un manuale di teologia ascetica Lo specchio dei monaci. Un lavoro simile Sulla dottrina del cuore, ricco di allegorie, fu scritto da Gerardo di Liegi (1249-1254), abate di Val-Saint-Lambert.

L’inglese Baldovino di Ford (1140-1191) è ricordato nella storia della teologia per il suo bel saggio Del sacramento dell’altare. L’italiano Oglerio di Locedio (1150 ca.-1214) compose un trattato di Mariologia e scrisse 13 sermoni sull’Ultima Cena. L’alsaziano Günther di Pairis (1160 ca.-1220), oltre ad alcune opere storiche, lasciò delle riflessioni Sulla Preghiera, sul Digiuno e sull’Elemosina. Autore di un certo numero di opere devozionali fu Stefano, monaco e abate di Sawley, poi abate di Newminster e alla fine di Fountains (1155 ca.-1252). I suoi. scritti comprendono uno Specchio per i novizi e alcuni libri di meditazione, tra cui Sulle Gioie della Beata Vergine Maria e sulla salmodia. Un suo contemporaneo, John Godard, primo abate di Newenham, scrisse fra altri brevi lavori, un saggio sulla mortificazione e un trattato sull’assunzione della Vergine. Odone di Morimond (1100 ca.-1161) si distinse per i suoi sermoni sulle sofferenze di Maria sotto la Croce.

I Cistercensi del XII e XIII secolo contribuirono abbondantemente alla diffusione di Esempi popolari, brevi narrazioni per illustrare la bellezza delle virtù e l’odio dei vizi. Tra essi si possono enumerare Galland di Rígny, autore di Parabole e Proverbi, Herbert di Mores (1120 ca.-1180), Corrado di Eberbach (1160 ca.-1221) autore del più volte citato Grande Esordio, e il giustamente famoso Cesario di Heisterbach (1180-1245), priore e maestro dei novizi di quella grande abbazia della regione del Reno, autore di una immensa collezione di storie edificanti di monaci, monache e fratelli conversi, che si diffuse sotto il titolo di Dialogo dei Miracoli. Il fondamento storico di molti di questi episodi rimane abbastanza contestabile, comunque bisogna riconoscere che questo lavoro resta una fonte inesauribile per lo studio delle usanze della vita monastica nel XIII secolo e del folklore religioso.

L’agiografia, la composizione di Vite di innumerevoli persone devote e di visionari, fu un’altra delle forme della letteratura devozionale, soprattutto nel XII secolo. È certo che l’una o l’altra di queste collezioni faceva parte dei libri di una qualsiasi biblioteca monastica. Una ventina di Cistercensi, monaci e monache, vennero immortalati nelle pagine di questi volumi, soprattutto i mistici di Villers, Aulne, Himmerod e Heisterbach. Particolarmente interessanti sono la Cronaca di Villers e le Vite dei Santi di Villers: quell’abbazia fu per più di un secolo un centro fervente di vita mistica, irradiando la stessa spiritualità in molteplici direzioni, arricchendo un gran numero di monasteri di monache e di comunità di beghine. Le vite di David di Himmerod, di Simon di Aulne, di Abundus di Huy insieme a quelle di monache, abbastanza simili, danno prova della vitalità del misticismo cistercense lungo tutto il secolo XIII.

È doveroso accennare anche a Gioacchino da Fiore (1130-1202), il grande mistico calabrese, anche se il suo insegnamento non ha niente a che vedere con le tradizioni cistercensi. Era entrato nell’Ordine dopo un pellegrinaggio a Gerusalemme; divenne anche abate di Corazzo, ma poi lasciò la comunità per terminare i suoi giorni dedicandosi alla contemplazione, alla scrittura di opere e alla predicazione. I suoi lavori Concordanza dell’Antico e del Nuovo Testamento, Spiegazione dell’Apocalisse, Salterio a Dieci Corde trattano della Trinità in modo apparentemente “tri-teistico”, e annunciano la venuta di un’epoca nuova sotto la sovranità dello Spirito Santo, età di beatitudine e di pace eterna. La sua dottrina sulla Trinità venne condannata nel 1215; i suoi scritti però esercitarono un grande influsso sulla religiosità del tardo Medio Evo, soprattutto fra i Francescani Spirituali.

Il primo campo di studi profani che fin dagli inizi occupò un certo numero di abbazie cistercensi fu la storia. Lo storico più eminente dell’Ordine e certamente il più grande del secolo fu Ottone di Frisinga (1112-1158) fratellastro di Corrado III, Imperatore di Germania, e zio di Federico Barbarossa. Dopo aver compiuto gli studi a Parigi, sotto la guida di Abelardo e Gilberto de la Porrée, entrava immediatamente nell’Ordine per poi diventare abate di Morimond e quindi vescovo di Frisinga; a fianco dell’Imperatore, partecipò allo svolgimento tragico della Il Crociata. Le sue due opere più importanti furono la Cronaca, detta anche I libri delle Due Città, una storia mondiale che giungeva fino al 1146, e le Gesta dell’Imperatore Federico, storia dei primi anni di impero del Barbarossa, fondata sulle analisi storiche dallo stesso Ottone. La Cronaca costituiva il primo tentativo dell’epoca, teso alla realizzazione di una filosofia della storia, che si riferiva alle idee fondamentali della Città di Dio di Sant’Agostino.

In alcuni casi, vennero fondati monasteri cistercensi con la finalità esplicita di promuovere lo sviluppo della cultura, e in primo luogo gli studi storici. Così, nel 1162 fu fondata in Danimarca l’abbazia di Sor, appunto perché “potessero vivervi ed esservi formati degli uomini di grande cultura, che fossero in grado di compilare gli annali del regno e registrare ogni anno per i posteri gli eventi degni di memoria”.

Scrittori cistercensi si assicurarono un posto di primo piano come annalisti nella storiografia di Inghilterra, Scozia e Paesi del Galles. È doveroso menzionare a questo proposito le abbazie di Melrose, Waverley, Coggeshall, Aberconway, Stanley, Hailes, Dore, Strata Florida, Furness, Fountains e Meaux. L’opera Monumenta Germaniae Historica pubblicò le cronache di 48 abbazie cistercensi che svolsero un ruolo importante nella storia della Germania; la maggior parte del libro era stata composta tra il XII e il XIII secolo. Fra gli autori conosciuti singolarmente, i più grandi furono: Ralph di Coggeshall, (1150 ca.-1227), che scrisse il Chronicon Anglicanum; Günther di Pairis (1150 ca.-1220), poeta e storico della IV crociata, autore dell’opera denominata Historia Constantinopolitana; Alberic di Troisfontaines, (1190 ca.-1251), compilatore di una storia del suo tempo, che comprende gli eventi dal 1225 al 1250 circa; Peter di Zittau, (1275-1339) abate di Königsaal, che scrisse un Chronicon Aulae Regiae, sulla storia della Boemia tra il 1305 e il 1377; Giovanni, abate di Viktring, (1280 ca.-1347), il cui Liber certarum bistoriarum è una fonte indispensabile per lo studio della storia della Germania e della Boemia, soprattutto per il periodo compreso tra il 1217 e il 1341. Vincent Kadlubek (1160-1223), Vescovo di Cracovia, padre della storiografia polacca, trascorse gli ultimi anni della sua vita in solitudine, nell’abbazia Cistercense di Andrejow. Pietro di Vaux-de-Cernay, (1150 ca.-1218), accompagnò lo zio, Guy, abate di Vaux-de-Cernay, alla IV Crociata e poi seguì lo svolgimento della Crociata contro gli Albigesi come testimone oculare. La sua Historia Albigensis costituisce una fonte ancora indispensabile ed unica nel suo genere, benché non imparziale, di quegli eventi tragici della storia francese.

Forse non esisteva abbazia sprovvista di un libro di formule latine ars dictaminis a servizio dei latinisti meno esperti per la composizione di lettere ben scritte, documenti redatti in modo esatto o carte di visita. Un libro di questo genere e di grande popolarità venne composto da Maestro Transmundus, notaio papale degli anni 1185-1186, e poi monaco di Clairvaux, dove morì nel 1216.

La Scolastica determinò la prima grande svolta verificatasi nella spiritualità cistercense, che si espresse in concreto con la fondazione del Collegio san Bernardo, nel 1245. Da allora in poi l’Ordine assunse la responsabilità di formare i propri membri non solo nella vita ascetica, ma anche nella vita intellettuale; anzi, con il passare del tempo, lo sforzo di sviluppare la formazione intellettuale ovviamente prevalse. Come si diceva nelle pagine precedenti, le cause che portarono al cambiamento comprendevano il timore dell’eresia, il prestigio crescente degli studi, il ruolo svolto dall’Ordine nelle attività pastorali e missionarie, e un certo spirito di rivalità con gli Ordini mendicanti.

Tuttavia, lo zelo per gli studi teologici non restò incontestato. L’opposizione più ferma venne da Villers, il centro fiorente e più considerevole del misticismo del tempo; l’abate, Arnolfo di Lovanio (1240-1248) si rifiutò rigorosamente di contribuire alla costruzione del Collegio di Parigi. Anche dopo il felice avvio dell’istituzione, la reazione dei conservatori fu abbastanza forte, tanto da portare alla deposizione di Stefano Lexington, abate di Clairvaux, fondatore del Collegio. Eppure, alcuni anni dopo, tutto l’Ordine appoggiava lo sviluppo degli studi superiori, e ciò trovava riflesso nell’entusiasmo crescente che il Capitolo generale dimostrava per quanto riguardava gli interessi del Collegio.

Fin dal 1245, i Padri Capitolari accolsero la comunicazione dell’approvazione papale concessa al collegio cistercense con una dichiarazione di questo genere: la nuova scuola doveva promuovere la gloria di Dio e quella dell’Ordine, l’onore e la stima della Chiesa santa e universale, elevando i nostri cuori con la luce della divina sapienza”. Nel 1341 il Capitolo generale non esitava ad affermare che «Io studio teologico di Parigi glorifica l’Ordine intero, perché i nostri membri ivi attingono con abbondanza acque vive dalle fonti del Salvatore». Nel 1490, sollecitando ad inviare studenti allo stesso Collegio, il Capitolo generale assicurava a quanti lo avrebbero frequentato che «l’onore e la gloria del nostro Ordine dipendono in gran parte dal moltiplicarsi dei membri colti e ben istruiti».

All’epoca di questa affermazione, non solo Parigi, ma anche tutte le altre università più importanti in Europa avevano visto moltiplicarsi il numero degli studenti cistercensi e dei laureati. Sembrò comunque che la gloria dell’Ordine, a cui si ambiva, dovesse restare labile a lungo. Resta da chiedersi perché l’Ordine Cistercense non riuscì a far emergere nessuno studioso di notevole grandezza, mentre i Domenicani avevano san Tommaso d’Aquino e i Francescani Bonaventura e Duns Scoto. Una spiegazione parziale potrebbe consistere nella struttura e natura della vocazione apostolica degli Ordini Mendicanti. Domenicani e Francescani incoraggiavano i loro giovani studenti di filosofia e teologia a continuare a lungo gli studi, permanendo nelle università, facendovi una carriera di insegnamento e di ricerca; i Cistercensi invece non avevano nessuno stimolo in questo senso, anzi gli studenti più brillanti venivano spesso eletti abati prima che potessero conseguire il dottorato. Non è necessario sottolineare che, dal punto di vista dei giovani monaci ambiziosi, l’abbaziato costituiva una carriera preferibile a quella di fare il professore; e dopo aver accettato la prima, le responsabilità di governo rendevano impossibile il proseguimento degli studi.

L’esempio di Stefano Lexington, fondatore del Collegio di Parigi, può contribuire ad illuminare la difficile situazione in cui veniva a trovarsi un Magister di Oxford, ricco di talenti, una volta fattosi cistercense. Non appena ebbe emesso la professione a Quarr Abbey, venne eletto abate, prima di Stanley, poi di Savigny e quindi di Clairvaux: ogni nuova nomina era ben più esigente di quella precedente. Invece di scrivere dotti trattati sui temi teologici più in voga o in luogo di comporre una propria Somma, dovette servirsi della sua brillante intelligenza per risolvere problemi più spiccioli. Egli lasciò ai posteri non delle sintesi di teologia scolastica, ma solo carte di visite e una fitta corrispondenza di gran valore storico, ma di scarso interesse teorico.

Il primo cistercense che, a quanto si sappia, ricevette il dottorato come studente del Collegio san Bernardo fu Guy, abate dell’abbazia di Aumône, che venne però ai gradi non attraverso la procedura normale, ma dietro l’ordine di Papa Innocenzo IV, nel 1256. Il primo studente che ricevette lo stesso onore dalle autorità dell’Università fu Jean de Weerse, nel 1274, monaco dell’abbazia di Les Dunes. Di tutte le sue opere, si conservano soltanto alcune piccole dissertazioni. Si sa ben poco degli altri dottori cistercensi che ricevettero i gradi un po’ prima o un po’ dopo la fine del XIV secolo; le loro opere che sono ancora conservate o potrebbero essere identificate, giacciono sepolte negli archivi e nelle biblioteche. Tra di essi possiamo ricordare François de Keysere (1265-1294) e Jean de Sindewint, entrambi monaci di Les Dunes; Humbert, abate di Preuilly, Reniere di Clairmarais, Jean de He di Ter Doest, Jean di Dun-le-Roi e jacques di Digione, che si laureò a Parigi nel 1310 e divenne poi abate di Preuilly.

Fra i primi laureati del Collegio di Parigi, il più famoso fu senz’altro Jacques Fournier, monaco di Boulbonne, divenuto poi abate di Fontfroide, (1311), dottore in teologia (1313-1314), vescovo di Pamiers e Mirepoix, poi Cardinale nel 1327 e alla fine Papa con il nome di Bendetto XII (1334-1342). La sua voluminosa eredità in opere di studio comprende un trattato Sulla condizione delle anime prima del Giudizio Finale, un enorme Commento al Vangelo di Matteo, un certo numero di lavori sugli eretici e sulle eresie del tempo, dei sermoni ed anche delle vite di santi. Prima di essere eletto papa, godeva la reputazione di grande esperto sull’ortodossia teologica e per anni fu grande inquisitore. Come Papa, si rivelò instancabile riformatore degli ordini monastici e benefattore generoso della sua alma mater, il Collegio di Parigi. La costruzione della chiesa dello stesso collegio, grande ma incompiuta, uno dei migliori esempi del gotico fiammeggiante di Parigi, distrutto purtroppo dalla rivoluzione, venne intrapresa sotto i suoi auspici.

Altro intenso studioso fu jacques di Thérins, monaco e poi abate di Chális, divenuto nel 1318 abate di Pontigny (1250 ca.-1321); durante il periodo in cui diresse il Collegio san Bernardo (1306-1309) compose due volumi di opere varie Quodlibeta. Quale membro del Concilio di Vienne (1311-1312), aveva scritto un resoconto dettagliato delle condizioni morali e finanziarie dell’Ordine cistercense, che doveva sollecitare un decreto di riforma; questo venne promulgato poi soltanto nel 1335 da Benedetto XII.

Il teologo più brillante della generazione successiva fu Jean de Mirecourt, monaco di Cîteaux, laureatosi al Collegio san Bernardo; per il conseguimento del suo titolo di studio, aveva preparato un commento sulle Sentenze (1344-1345). Era uno dei molti discepoli di Guglielmo di Ockham, ma aveva conservato una notevole indipendenza di stile e di pensiero. Come altri membri della sua stessa scuola, si interessò molto di epistemologia, segui e approfondì la logica dello scetticismo e affermò che esisteva la certezza assoluta solo nell’evidenza ridotta al principio di contraddizione. Ma gli anti-nominalisti, che vegliavano sull’ortodossia della scuola, ritennero le sue tesi incompatibili con l’ortodossia e nel 1347 Clemente VI condannò 41 proposizioni errate dell’insegnamento di Mirecourt. Il giovane studioso difese vigorosamente le proprie affermazioni, ma nel 1348 scomparve improvvisamente; era stato colpito, con ogni probabilità, dalla peste, a Royaumont, dove era appena stato eletto abate. La diffusione in larga scala dei suoi scritti, dà prova della sua reputazione e della sua notevole popolarità.

Compagno di studi e amico intimo di Mirecourt fu Pierre Ceffons, monaco di Clairvaux, un testimone sopravvissuto alla peste di Parigi. Egli non fu soltanto difensore esplicito delle tesi dell’amico condannato dalle autorità, ma lo superò di molto con le sue critiche audaci verso le autorità costituite. Benché la sua “produzione letteraria fosse vasta, molteplice e considerevole” restò praticamente sconosciuto fino al 1957, quando alcuni suoi manoscritti furono scoperti e identificati nella biblioteca municipale di Troyes. Ceffons aveva ottenuto il baccalaureato in teologia al Collegio san Bernardo nel 1348-1349 ed aveva terminato il proprio corso di studi teologici nel 1353, ma non sappiamo nulla della sua carriera successiva. Con ogni probabilità, anch’egli morì prematuramente.

La sua opera più voluminosa fu un commentario alle Sentenze, che si apre con una mordace denuncia di quelle tre vecchie streghe straniere, che erano responsabili della condanna di Mirecourt e dei suoi compagni, nel 1347. Egli era stato abbastanza accorto da non nominarli, ma si riferiva chiaramente ai tre frati italiani attivi a Parigi e ad Avignone; egli avrebbe desiderato che fossero banditi dalla Francia e gettati al profondo dell’inferno. Gli altri lavori di Ceffons comprendono una trilogia: Centilogium (100 capitoli), una lettera di Gesù Cristo ai prelati del tempo; Epistola Luciferi, una lettera aperta del principe delle tenebre al papa e ai vescovi, per sollecitarli, in modo beffardo, ad essere un po’più fedeli a Beelzebub; e il Parvum Decretum, una dissertazione sui limiti dell’autorità pontificia. In un notevole manoscritto intitolato Sogno (Somnium), litigava con il Capitolo generale del 1348 perché era stato ripristinato un vecchio statuto che richiedeva ai monaci di manifestare una volta all’anno ai loro abati i peccati che già avevano confessato. Egli ricorreva alla argomentazione (e tutto avveniva in sogno!) che quella norma violava la libertà di coscienza ed era perciò evidente abuso di autorità.

Due Cistercensi Inglesi furono coinvolti, anch’essi, nelle controversie del nominalismo, ed entrambi vennero condannati per il loro pensiero affine a quello di Ockham. Uno di essi fu un certo Henricus Anglicus, che Benedetto XII ordinò di sottoporre all’inquisizione, nel 1340. L’altro fu Riccardo di Lincoln, monaco di Louth Park, le cui tesi bizzarre furono condannate da Benedetto XII; egli però venne assolto, in seguito, dalla condanna da Clemente VI nel 1343 e gli permise di terminare gli studi a Parigi.

Alcuni anni dopo, nello stesso secolo, due studiosi cistercensi di Oxford presero ferma posizione contro l’insegnamento di John Wycliffe (1330-1384). Henry Crumpe, un monaco irlandese, predicò assiduamente contro l’erronea dottrina, chiamandone gli aderenti Lollardi, e firmando l’atto che condannava la sua tesi sulla Eucaristia. Lo stesso Crumpe si dimostrò controversista di grandi risorse, sia in discussioni aperte che negli scritti; fra gli altri, attaccò i Mendicanti per i loro eccessivi privilegi.

Difensore dell’ortodossia fu anche il priore di Sawley, William Rymington (1325-1385), che durante gli anni 1372-1373 fu cancelliere dell’Università di Oxford. Pur attaccando Wycliffe, comunque, non ignorava gli errori della Chiesa e, in qualità di cancelliere, pronunciò due sermoni di grande valore, criticando acutamente il comportamento morale del clero contemporaneo. Fu autore di un libro di meditazioni, che dà prova della sua sincera religiosità.

Tra gli studiosi più celebri del Collegio di Parigi, verso la fine del secolo, si conta Jacob di Eltville, dottore in teologia nel 1373, già abate di Eberbach (1340 ca.-1393). I suoi quattro libri di commentario alle Sentenze rivelano l’influsso del nominalismo. Un altro tedesco, Corrado di Ebrach (1330-1399), iniziò gli studi a Parigi, per continuarli a Bologna ed ottenere infine il grado di dottore a Praga nel 1375. Il suo commento alle Sentenze, largamente usato, lo rivela affine alla scuola teologica agostianiana, soprattutto a Ugolino di Orvieto (1310 ca.1373). Ma poco dopo la sua laurea, i tedeschi non furono più accolti favorevolmente a Praga; allora si trasferì a Vienna, dove collaborò all’organizzazione della facoltà di teologia. Ugualmente importante fu il ruolo che svolse nell’organizzazione dei cistercensì tedeschi durante il Grande Scisma, per sostenere Urbano VI, il Papa romano, che lo onorò con il titolo di Abate di Morimond. Durante lo scisma, Corrado assicurò la presidenza di alcuni Capitoli generali cistercensi, convocati fuori della Francia.

Quando gli Hussiti riuscirono a impadronirsi dell’Università di Praga, essi espulsero dall’Università tutti i cistercensi, tra i quali anche Matteo Steynhus di Königsaal, dottore di Praga, famoso teologo e scrittore (1380 ca.-1427). Questi stabilì la propria nuova dimora a Altzelle, dove contribui alla organizzazione del collegio cistercense di Lipsia; egli partecipò anche al Concilio di Costanza (1414-1418).

Verso gli inizi del XV secolo, la Scolastica era ovunque in pieno declino. Il nuovo movimento culturale dell’Umanesimo non aveva nessun rapporto con le vecchie scuole di pensiero e, infatti, molte università si dibattevano unicamente per poter sopravvivere. I cistercensi continuarono a frequentare i collegi che avevano eretti, ma non ci furono filosofi o teologi di prestigio. Così, le attese entusiaste che avevano accompagnato la fondazione dei primi collegi cistercensi non furono mai colmate. Il gran numero di laureati all’interno dell’Ordine non riuscì ad esercitare un’influenza positiva sullo stile di vita morale e spirituale che stava prevalendo, e non riuscì neppure a dar vita a una scuola di teologia cistercense. Se da un lato la maggior parte degli studiosi di cui si è fatto il nome sembra aver seguito la via moderna, più o meno influenzata dal nominalismo, essi rimasero talenti eclettici e non fecero abbastanza a lungo parte del campo degli studi o dell’insegnamento per formare propriamente una scuola di pensiero o per organizzare attorno a sé un gruppo di discepoli. Comunque, bisognerà attendere conclusioni più dettagliate, frutto di ricerche valide, prima di pronunciare l’ultima parola.

La mancanza di un lavoro adeguato rende difficile formulare un giudizio definitivo sul valore della scolastica cistercense, e ciò si rivela ancor più quando si considera la letteratura devozionale dei secoli XIV e XV. I nomi che indichiamo non sono necessariamente quelli degli autori più importanti: si tratta semplicemente di coloro che, per una ragione qualsiasi, sono stati ricordati, a preferenza di innumerevoli altri, caduti completamente nell’oblio. È impossibile dire se queste opere conservano ancora elementi della spiritualità bernardina così diffusa un tempo: nella maggioranza dei casi la risposta sembra essere ovviamente negativa.

Personalità senza dubbio importante fu Filippo di Rathsamhausen (1250 ca.-1322), monaco e abate dell’abbazia alsaziana di Pairis, studente di teologia a Parigi e poi vescovo di Eichstätt, dal 1306. In qualità di Vescovo divenne consigliere di tre sovrani tedeschi, uno successivo all’altro: Alberto I, Enrico VII e Luigi di Baviera. Era uomo di grande pietà, predicatore efficace, autore di una Esposizione sul Magnificat, di meditazioni sul salmo 4 e sul Padre Nostro, di vari sermoni e di Vite di santi familiari alla devozione popolare.

Religiosità e cultura si fondono nelle opere di Nicola Vischel, monaco dell’abbazia austriaca di Heiligenkreuz (1250/60-1330), autore delle Lodi della Beata Vergine Maria, di alcuni sermoni e di qualche trattato contro gli eretici. Ulrich, abate dell’abbazia austriaca di Lilienfeld (1345-1351), compose un’opera ricca di colore, intitolata Concordia Veritatis, parafrasi moraleggiante della Bibbia, e scrisse delle meditazioni sui salini.

Si attribuisce a Gallus, abate della comunità di Kónigsaal, in Boemia (1310 ca.-1370), la composizione di un manuale di ascetica e mistica, intitolato Malogranatum, redatto sotto forma di dialogo. Si trattava di un’abile compilazione che, in Boemia divenne opera divulgativa della devotio moderna a livello popolare. Dopo aver circolato per un secolo, come manoscritto, venne poi stampato in tre edizioni a incunabolo e perfino tradotto in francese.

Nessun’opera cistercense può competere in popolarità con il libro dal titolo Antidotarius animae: si trattava, secondo quanto affermava il sotto titolo, di un libro di pie meditazioni e di preghiere, offerte come antidoti per le anime. L’autore era Nicola Salicetus (Wydenbosch), dottore in medicina, svizzero di nazionalità, divenuto poi cistercense e quindi abate della comunità di Baumgarten in Alsazia (1482). Il libro venne stampato per la prima volta nel 1489 e verso il 1554 aveva già visto trenta edizioni. Ancora nel 1580 lo si vendeva tanto bene che ne venne curata una traduzione in francese. Il fascino insolito di quest’opera consisteva probabilmente nel fatto che offriva preghiere efficaci per qualsiasi sventura che potesse capitare nella vita, in modo assai simile a ciò che era avvenuto all’autore nella sua professione precedente, quando prescriveva delle ricette per la gente affetta da problemi di salute.

Il genere letterario delle leggende rimase popolare fino alla fine del Medio Evo. Anzi, il XIV secolo vide una rinascita del misticismo cistercense non solo nelle comunità delle monache dell’Ordine ma anche nelle abbazie maschili, soprattutto in Germania. Centri famosi per la loro pietà furono i monasteri di Heilsbronn, specie durante l’abbaziato di Corrado di Brundelsheim (1317-1321); Kaisheim, al tempo di Ulrico Nubling (1340-1360), amico personale del grande mistico tedesco Giovanni Taulero; Waldsassen, durante l’abbaziato di Peter prima e di Gallus poi. Tutti gli abati menzionati qui furono anche autori di opere mistiche e devozionali. Johannes Ellenbogen, abate di Waldsassen, raccolse le biografie e descrisse le esperienze mistiche di alcuni monaci della sua comunità e dedicò la sua opera a Peter di Kónigsaal, dove già si conosceva ed era in circolazione una collezione analoga.

Nel 1439 e nel 1447 lo stesso Capitolo generale incoraggiò gli abati a promuovere la raccolta di scritti biografici di monaci e monache devote delle loro comunità. Abbiamo già parlato del fervore di vita religiosa che costituiva lo sfondo da cui prese vita la Congregazione di Sibculo ed anche della relazione di questa con la devotio moderna.

La vita di santa Brigida di Svezia (1302-1373), mistica e profetessa famosa, dà prova del grande vigore che la spiritualità cistercense continuava a riscuotere nel Nord. Quando suo marito prese l’abito cistercense nell’abbazia di Alvastra, Brigida continuò a vivere per alcuni anni nelle vicinanze del monastero, sotto la direzione spirituale dei monaci. La sua pietà era tipicamente cistercense, incentrata sulla passione di Cristo e le glorie della Beata Vergine Maria. La Regola dell’Ordine del Salvatore (Brigittine), da lei fondato, riflette l’influenza della spiritualità cistercense. Alcune parti delle sue rivelazioni furono tradotte dal vernacolo in latino, dal cistercense Peter Olafsson, priore di Alvastra e fedele segretario della Santa.

Il sedicesimo secolo, età della Riforma protestante e delle guerre di religione, non fu epoca propizia per le attività letterarie o teologiche. Là dove i cistercensi potettero continuare a vivere una esperienza viva ed efficace, alcuni membri dell’Ordine presero parte attiva nello svolgimento delle controversie religiose, ma pochi scritti si dimostrarono duraturi.

La vastità e la qualità delle opere di erudizione continuò ad essere notevole in Spagna e in Portogallo, soprattutto nel campo degli studi storici. L’abbazia di AlcobaQa, da sola, contava 17 storici tra i suoi 280 scrittori. Il più importante fu senza dubbio Bernardo de Brito (1569-1617): tra le sue numerose opere storiche bisogna menzionare la Cronaca di Cîteaux (1602), storia dei cistercensi portoghesi, ricca di documentazione. L’autore era monaco di Alcobaça, laureato a Coimbra e cronista di corte di Filippo III. Purtroppo, la sua notoria mancanza di capacità critica rende assai problematica l’utilizzazione di questo grande lavoro. La sua ampia raccolta di documenti De privilegiis Ordinis Cisterciensis è rimasta manoscritta.

Nel frattempo, in Spagna si affermarono due storici, le cui opere rimangono pietre miliari della cultura storica cistercense. Angel Manrique (1577-1649) nato a Burgos ed entrato nell’abbazia di Huerta, aveva poi completato gli studi a Salamanca e vi era rimasto per alcuni anni come rettore dei collegio cistercense di Loreto. Egli godeva di grande stima alla corte di Filippo IV, dove spesso aveva predicato; con il favore del re, divenne poi vescovo di Badajoz, nel 1639. Tra le sue numerose opere di storia, di teologia e di pietà le più importanti sono certo gli Annales Cistercienses, pubblicati in 4 volumi, “in folio”. Seguendo una rigida cronologia, riuscì a stendere una storia dell’Ordine solo fino al 1236.

Crisostomo Henriquez (1594-1632) arricchì la sua breve vita di un lavoro di ricerca dalle dimensioni quasi prodigiose. Anch’egli era monaco professo dell’Abbazia di Huerta, ma si era recato nei Paesi Bassi Spagnoli, dove godette dell’appoggio diretto dell’Arciduca Alberto. Il suo campo di interesse fu l’agiografia cistercense ed egli pubblicò tutti i suoi primi lavori nelle Fiandre: nominiamo il Fasciculus Sanctorum Ordinis, Lilia Cistercii e il Menologium Cisterciense.

In Italia, lo storico cistercense più famoso fu Fernando Ughelli (1595-1670), nato a Firenze, monaco e poi abate di Settimo, e quindi abate dell’abbazia romana delle Tre Fontane. Durante la sua permanenza a Roma, si guadagnò il favore di Alessandro VII e di Clemente IX: dietro il loro incoraggiamento intraprese la pubblicazione della sua Italia Sacra, opera tuttora indispensabile nelle ricerche storiche sulla Chiesa in Italia (dieci volumi formato “in folio”, 1642-1662). Dopo la sua morte ne veniva pubblicata a Venezia una edizione corretta e aggiornata (1712-1722).

I Foglianti ebbero un buon numero di autori famosi. Fra i loro storici, il più conosciuto è Carlo Giuseppe Morozzo (1645-1729), abate dell’abbazia della Consolata, a Torino, e più tardi vescovo di Saluzzo. Oltre a libri di carattere devozionale, egli pubblicò una storia dell’Ordine dei Certosini, alcune biografie e la storia della riforma dei Foglianti, dal titolo Cistercii reflorescentis chronologica historia (1690).

Gaspare Jongelinus, monaco di origine fiamminga e abate prima di Disibodenberg e poi di Eusserthal, consumò la propria vita lavorando nei migliori archivi dell’Ordine. Frutto del suo lavoro fu la Notitia Abbatiarum Ordinis Cisterciensis, pubblicata nel 1640, nella quale enumerava ed identificava 797 abbazie cistercensi. Nonostante i molti errori, resta l’unico lavoro a cui riferirsi, tra le opere dei suo genere, prima di quello di Janauschek, il cui titolo è Origines Cisterciensium (1877). Nel 1641 componeva una storia sugli ordini militari cistercensi, e nel 1644 un elenco di vescovi, cardinali e papi benedettini e cistercensi, dato poi alle stampe.

Charles de Visch (1600 ca.-1666) monaco e priore dell’abbazia di Les Dunes, compilò una bibliografia di autori cistercensi di tutti i paesi, dagli inizi fino all’epoca in cui egli scriveva. La sua Bibliotheca Scriptorum Sacri Ordinis Cisterciensis, in due edizioni (1649 e 1656), completata in seguito da aggiunte, restò per tre secoli l’unico lavoro del genere da poter consultare.

Agostino Sartorius (1663-1733) monaco professo dell’abbazia di Ossegg, in Boemia, pubblicò una storia popolare, in due volumi, dell’Ordine Cistercense, dal titolo Cistercium Bis-tertium (Praga, 1700). Come indica lo strano titolo, egli voleva contribuire con il suo lavoro alla celebrazione del sesto centenario della fondazione di Cîteaux. Il tono del libro era essenzialmente quello di un panegirico, e tuttavia l’opera godette una vasta diffusione e venne presto tradotta in tedesco.

In Francia, il contributo più durevole alla cultura cistercense del XVII secolo fu la pubblicazione della Bibliotbeca dei Padri Cístercensi (1660-1669) a cura di Bertrand Tissier, monaco, priore e riformatore di Bonnefontaine, laureato all’Università di Pont-à-Mousson (1610 ca.-1670). I suoi tre volumi, formato “in folio”, comprendono delle buone edizioni delle opere dei primi autori cistercensi e furono stampati nella tipografia della sua abbazia.

Claude Chalemot, monaco di Cherlieu e abate di La Colombe (160Oca.-1667), aveva composto, fra altri lavori di teologia, un compendio agiografico di vasta utilizzazione, dal titolo Series Sanctorum et Beatorum Ordinis Cisterciensis (Parigi, 1666). Fra i molti autori di monografie di singole abbazie, bisogna menzionare in modo particolare Claude Auvry, monaco di Vaux-de-Cernay e priore di Champagne, poi di Savigny, verso il 1680; egli lasciò ai posteri una voluminosa Storia della congregazione di Savigny, che si trova ancora in circolazione, in una edizione in tre volumi (1896-1898). Altrettanto si deve dire della grande collezione di fonti di Julien Paris, abate di Foucarmont, (1595 ca.-1672); si tratta del Nomasticon Cisterciense, pubblicato nel 1664; ancora oggi risponde alle sue finalità principali, grazie all’edizione di Séjalon dei 1892.

Nicola Cotheret, monaco e archivista di Cîteaux, dottore alla Sorbona, completò una storia della abbazia di Cîteaux verso il 1738. A causa dell’atteggiamento spiccatamente critico che aveva assunto nei confronti di molti abati, la sua opera non poté essere data alle stampe, ma i dettagli di cui è ricca sono rivelatori e potrebbero giustificare una pubblicazione postuma. Invece, i nove imponenti volumi dell’opera del titolo Essai de l’histoire de l’Ordre de Cîteaux (1696-1699), scritti da Piere Lenain (1640-1713), sconcerterebbero i lettori contemporanei. L’autore era monaco nell’abbazia della Trappa, amministratore e biografo di De Rancè, ma il suo libro è solo una collezione di biografie devote e di leggende miracolose, prive di qualsiasi valore storico.

Lungo tutto il secolo XVII, i cistercensi francesi furono impegnati nei dibattiti sorti tra la Stretta e la Comune Osservanza. Tra le centinaia di opuscoli pubblicati da entrambe le parti, molti avevano un considerevole valore storico e giuridico ed erano stati scritti con una erudizione che ne uguagliava lo spirito di parte. Tra gli Astinenti, l’autore più dotato fu Jean Jouaud, (1610 ca.-1673) abate dell’Abbazia di Prière e leader della riforma; nel 1656 egli sintetizzò i risultati dei dibattiti della prima metà dei secolo in un libro prolisso e riccamente documentato, dal titolo Défense des reglements. Lo stesso lavoro riapparve nel 1746 in una versione corretta e aggiornata, dal titolo Histoire Générale de la réforme de l’Ordre de Cîteaux en France, sotto il nome di François-Armand Gervaise (1660-1715) monaco ed ex-abate dell’abbazia della Trappa, autore di alcune vite popolari di santi. Questo lavoro, tenuto per un certo tempo in grande onore, contribuì a mantenere un giudizio fortemente erroneo sulla natura di quella famosa contesa monastica. Per ironia della sorte, il lavoro più ambizioso del Gervaise, una biografia dell’abate De Rancé in due volumi, restò manoscritto fino a quando venne pubblicato nel 1866 dall’Abbé Dubois, e come opera di questi, senza menzione dell’autore primitivo.

Il libellista più attivo della Comune Osservanza fu invece Jean Tédénat, procuratore del Collegio san Bernardo di Parigi, che nel 1667 venne ricompensato dei suoi servigi con il titolo di Priore Titolare della Gráce-Dieu.

Durante gli ultimi anni del XVII secolo e più o meno nel XVIII, l’attenzione generale dell’Ordine si polarizzò sulla contesa tra l’Abate di Cîteaux e i Proto-Abati. Gli argomenti dibattuti erano in parte di carattere storico e in parte di carattere giuridico: così, coloro che partecipavano a quello scontro verbale dovettero immergersi negli archivi dei monasteri per cercarvi della documentazione. Nel 1678 venne alla luce un lavoro di grande importanza, che sosteneva il punto di vista dell’abate generale: si trattava di Le véritable gouvernement de l’Ordre de Cîteaux, storia dell’Ordine da un punto di vista giuridico, opera estremamente analitica (576 pagine). L’autore, Louis Meschet (1650 ca.-1715), illustre studioso, era stato per molti anni rettore del Collegio di Parigi, con il titolo onorifico di Abate de la Charité (sinecura). Il suo lavoro principale, però, consiste in una raccolta di documenti pontifici (bullarium) attorno alla quale egli aveva lavorato per lunghi anni per arrivare poi alla pubblicazione, nel 1713, con il titolo di Privilegi dell’Ordine di Cîteaux. Si trattava di una selezione di bolle pontificie, opera che restò a lungo collezione di fonti di grande utilità. Alcuni anni dopo, Richard Montaubon, segretario dell’abate di Clairvaux e il dotto maestro dei novizi della stessa abbazia, Jean-Antoine Macusson, ne confutarono analiticamente il contenuto.

La personalità cistercense più originale e ricca di talenti del secolo XVII fu senza dubbio Juan Carainuel Lobkowitz (1606-1682). Era nato a Madrid ed era entrato fra i Cistercensi di Espina; aveva seguito i corsi accademici a Alcalà, Salamanca e Lovanio, ed era divenuto abate e vescovo, successivamente, in molte abbazie e sedi episcopali; ma talvolta svolgeva funzioni occasionalmente, quale Sovrintendente imperiale delle Fortificazioni in Boemia, dove gli furono attribuite conversioni di Hussiti e Protestanti al Cattolicesimo, fino a raggiungere il numero di 30.000 persone. Egli fu studioso eclettico, conosciuto nei circoli accademici di tutta l’Europa Cattolica. Nessuna specializzazione degli studi gli era ignota; parlava 24 lingue e pubblicò fino a 250 opere. La sua maggiore ambizione era quella di poter ridurre ogni cosa, perfino la teologia morale, a dei semplici principi di geometria. Nel suo libro più polemico, Teologia Morale Fondamentale (1651), si dimostrò nemico del Giansenismo e sostenitore di primo piano del probabilismo; ma il titolo di Principe dei Lassisti, che gli conferì sant’Alfonso de’Liguori, non era del tutto meritato.

Diametralmente opposto era il carattere dell’umile e schivo Louis Quinet, monaco di Val-Richer e abate di Barbery (1595-1665). Sotto l’influenza di Benis Largentier aveva abbracciato la Stretta Osservanza, ma si era mantenuto al di fuori delle controversie più accese. Egli fu uno dei pochi mistici cistercensi del secolo, ottimo direttore spirituale e autore di molte opere devozionali.

Cultura, celebrità e santità di vita caratterizzano in sintesi la vita di Giovanni Bona, professore di teologia, abate e generale dei Foglianti Italiani, e poi cardinale nel 1669 (1609-1674). Come autore di scritti ascetici divenne molto popolare, pur mancando di originalità.